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  • Ubuntu Gnome 13.04

    Ubuntu Gnome 13.04

    Martedì, 13 Agosto 2013 16:47

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  • 25 aprile e resistenza

    25 aprile e resistenza

    Giovedì, 25 Aprile 2013 18:41

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  • Confessioni di un neolaureato in cerca d'impiego in Italia

    Martedì, 01 Ottobre 2013 09:41

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  • L'ancora di salvataggio

    L'ancora di salvataggio

    Lunedì, 02 Settembre 2013 15:42

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  • Il posto che spetta ad ognuno

    Giovedì, 17 Gennaio 2013 20:26

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  • All'assalto della Costituzione

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    Mercoledì, 24 Luglio 2013 21:20

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  • UE o non UE questo è il problema!

    UE o non UE questo è il problema!

    Giovedì, 24 Gennaio 2013 19:35

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  • L'incubo continua

    L'incubo continua

    Domenica, 21 Aprile 2013 10:26

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  • Volemose bene, facendo la guerra.

    Volemose bene, facendo la guerra.

    Domenica, 03 Febbraio 2013 18:53

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  • Selene

    Selene "Dov'eri?", videoclip

    Venerdì, 08 Novembre 2013 12:11

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Platone - Simposio

platone

APOLLODORO: (1) Mi pare proprio di non essere non esercitato riguardo a quello che volete sapere da me. Me ne venivo per caso, avanti ieri, in città da casa mia. Ed ecco uno dei miei conoscenti, vedendomi dalle spalle, mi chiamò da lontano, e scherzando, insieme alla chiamata mi disse: «Oh, Falereo, eccolo il nostro Apollodoro! Non ti fermi un po'?». Ed io fermandomi l'aspettai.

Ed egli: «Apollodoro», mi disse, «proprio or ora ti cercavo desiderando di sapere di quella riunione di Agatone e Socrate e Alcibiade e degli altri che allora parteciparono a quella cena in comune, e dei discorsi sull'amore quali furono. Me li ha già esposti un altro che li aveva ascoltati da Fenice, (2) figlio di Filippo, e sosteneva che anche tu ne eri a conoscenza. Ma egli non aveva proprio nulla di chiaro da esporre. E dunque raccontameli anche tu: e infatti sei l'uomo più indicato per esporre i discorsi dell'amico. Ma prima», continuò egli, «dimmi: eri presente in persona a quella riunione o no?». Ed io gli risposi: «Sembra proprio che non t'abbia esposto nulla di chiaro colui che te l'ha raccontato, se tu pensi che quella riunione, della quale mi chiedi, sia avvenuta di fresco, tanto da potervi partecipare anch'io».

«Io sì », mi rispose. «Ma come», ribattei io, «Glaucone,(3) non sai che Agatone (4) è lontano da molti anni e non è più tornato qui, da quando io ho cominciato a frequentare Socrate e mi sono preso cura ogni giorno di sapere quello che dice e fa, non sono ancora tre anni?

Prima di questo ingannavo il mio tempo ove mi capitava, ritenendo anche di fare qualcosa, ma più infelice di chiunque altro, non meno di te, ora, che pensi occorra occuparsi di tutto piuttosto che di filosofare». Ed egli: «Non prenderti gioco di me», rispose; «dimmi invece quando avvenne questa nunione».

Ed io risposi: «Noi eravamo ancora ragazzi quando Agatone vinse con la sua prima tragedia e nel giorno successivo alla vittoria egli fece un sacrificio insieme ai coreuti». «è proprio molto tempo dunque», riprese, «come pare. Ma chi te l'ha raccontato?

è stato proprio Socrate?» «No, per Zeus!», ribattei io.

«Ma lo stesso che lo raccontò a Fenice.(5) Era un tal Aristodemo, del demo attico di Citandide, piccolo, sempre scalzo. Si era trovato in quella riunione, essendo un ammiratore di Socrate tra i più convinti di quelli di allora, come a me risulta. E su alcuni particolari non è che io non facessi domande anche a Socrate e mi disse di essere d'accordo come quello me li aveva raccontati». «E perché dunque non li hai ancora raccontati a me? La strada che conduce direttamente in città è proprio adatta, per chi vi si reca, e per parlare e per ascoltare».

E così andando insieme conducevamo il discorso su quegli argomenti, tanto che, come sostenevo all'inizio, non mi trovo fuor d'esercizio (su questo tema). Se dunque si deve raccontarlo anche a voi, occorre farlo.

Io d'altra parte, quando faccio direttamente o ascolto da altri discorsi di filosofia, a parte il fatto che ritengo di averne giovamento, ne godo anche oltre misura; quando invece ne ascolto certi altri, e in particolare i vostri di uomini ricchi e intesi soltanto a lucrare, li sopporto molto a malincuore e ho compassione di voi amici, poiché avete la convinzione di fare qualcosa, pur non facendo nulla. E forse voi, dal canto vostro mi considerate un povero diavolo, e ritengo che pensiate il vero; ma io sul conto vostro non lo penso, ma lo so bene.

AMICO: Sei sempre uguale, Apollodoro; e sempre tiri in ballo te e gli altri, e mi dai l'impressione di considerare tutti assolutamente dei disgraziati, cominciando da te, ad eccezione di Socrate. Per qual ragione poi tu abbia preso ad essere chiamato con il soprannome di "mite" non so proprio. In tutti i tuoi ragionamenti sei sempre tale, sei aspro con te e con gli altri, eccettuato Socrate.

APOLLODORO: Carissimo, è evidente: per il fatto che giudico voi così e sul conto mio e sul vostro sono pazzo e vado delirando.

AMICO: Non val la pena, Apollodoro, sollevare una lite, ora, per questi motivi. Ma come ti invitavamo, non fare altrimenti, ma raccontaci quali furono i discorsi.

APOLLODORO: Erano dunque un presso a poco di questo taglio: ma piuttosto tenterò di esporvi da capo tutto come Aristodemo ebbe a raccontarlo a noi.

Disse dunque di essersi imbattuto in Socrate tutto ben lavato e che portava addirittura i sandali ai piedi: cose che egli faceva assai di rado, e di avergli chiesto dove andasse così bello e agghindato. E lui gli rispose che andava a cena da Agatone: «Ieri infatti l'ho evitato dopo la vittoria, ma mi sono impegnato ad andarci oggi.

E per questo che ho tentato di farmi bello per andare bello da uno bello. Ma piuttosto», continuò egli, «come la metti di volere venire a cena, pur non essendo stato invitato?» «Ed io», continuava, gli risposi: «Così come tu disponi». «Vienmi dietro, dunque», rispose, «per alterare il proverbio stravolgendolo: ai banchetti da Agatone i buoni ci vanno di loro spontanea volontà. Omero poi rischia non solo di alterare ma anche di fare violenza a questo proverbio; infatti pur rappresentando Agamennone come uomo particolarmente valoroso nelle attività della guerra e Menelao invece, come un "flaccido manovratore della lancia", (6) mentre Agamennone celebra un sacrificio e imbandisce un banchetto, rappresenta Menelao che se ne va al convito senza essere invitato, egli che è inferiore da uno superiore».

Udite queste cose rispose: «Molto probabilmente anch'io correrò lo stesso rischio, non come dici tu, Socrate, ma come dice Omero, recandomi, senza essere invitato, io che sono uno di poco conto, al banchetto di uno che vale: considera dunque, dal momento che mi conduci tu, in che modo potrai scusarmi, perché io non consentirò di dire che sono andato senza invito, ma che sono stato chiamato da te.

«Andando insieme in due», rispose, «lungo la strada, stabiliremo cosa dire. Ma ora andiamo». Disse che dopo aver dialogato un presso a poco di queste cose si incamminarono. Ma Socrate, per la strada, avanzava lentamente volgendo la mente a un qualcosa restando indietro e, poiché l'altro si tratteneva per attenderlo, lo invitava ad andare avanti.

Quando giunsero alla casa di Agatone, capitarono che la porta era aperta, e lì , raccontava, avvenne una cosa comica. Subito infatti dall'interno giunse un ragazzetto per venirgli incontro e guidarlo dove erano apparecchiati gli altri e cominciavano proprio allora a mettersi a cenare. Non appena lo vide Agatone disse: «Aristodemo, giungi proprio nel punto migliore per cenare con noi. Ma se è un'altra la ragione per cui sei venuto, rinviala pure a dopo, perché anche ieri, pur cercandoti per invitarti a cena, non sono stato capace di trovarti. Ma come mai non conduci anche Socrate da noi?».

Ed io, diceva, pur volgendomi indietro non riuscivo a vedere che Socrate mi seguisse da una qualche parte. Dissi dunque che ero venuto con Socrate, essendo stato da lui invitato lì per la cena. «Hai fatto proprio bene», mi rispose. «Ma dov'è lui?».

Da dietro alle mie spalle poco prima stava entrando. Ma io pure mi meravigliavo dove mai fosse.

«Non ti affretti dunque, ragazzo, a vedere dov'è Socrate e condurlo qua?», disse Agatone. «Tu intanto, Aristodemo», continuò, «sdraiati pure presso Erissimaco».

E disse pure al ragazzo di lavarlo perché potesse sdraiarsi e intanto giunse un altro dei servitori ad annunciare: «Socrate è tornato indietro, nel portico della casa dei vicini e se ne sta là immobile e per quanto io lo chiami, lui non vuole venire».

«Dici una cosa ben strana», aggiunse: «non lo chiami dunque senza dargli un po' di tregua?». Ed egli saltò su a dire: «No, assolutamente! Lasciatelo stare.

Egli ha questa abitudine. Talvolta si ritira, dovunque capita, e se ne sta lì fermo. Ma verrà subito, come io ritengo. Non sollecitatelo dunque, ma lasciatelo stare».

«Occorre fare così , se a te pare opportuno», disse Agatone. «Intanto però, ragazzi, portate la cena a noi altri. Già voi avete l'abitudine di imbandire la tavola come volete, se qualcuno non vi sorveglia, cosa che io non ho mai fatto, ma ora, fingendo che io e questi altri siamo stati invitati a cena da voi, serviteci in modo che noi vi dobbiamo lodare».

Come ebbe dette queste cose cominciarono a cenare, ma Socrate non entrava. Agatone spesso ordinava ai servi di andarlo a chiamare, ma Aristodemo non gli consentiva di farlo. Giunse dunque Socrate dopo aver fatto passare molto tempo, come era abituato, ma essi, cenando, erano ormai giunti a metà. Ma Agatone che per caso si trovava sdraiato nell'ultimo divano, da solo, gli disse: «Vieni qua, Socrate, sdraiati vicino a me, perché possa godere anch'io, essendo molto vicino a te, di quella sapienza che ti si è applicata quando te ne stavi sotto al portico. è evidente infatti che l'hai trovata e che la conservi tuttora. Se no, non ti saresti allontanato di là».

E Socrate si mise a sedere e disse: «Andrebbe proprio bene, Agatone, se la sapienza fosse tale, da fluire da quello di noi che ne è più pieno a quello che ne è maggiormente vuoto, come avviene per l'acqua neì bicchieri, che attraverso un piccolo batuffolo di lana scorre da quello più pieno a quello più vuoto. Se la cosa sta così anche per la sapienza, io ho in grande considerazione l'essere sdraiato vicino a te: ritengo infatti che io sarò riempito di molta e bella sapienza da parte tua. La mia infatti è ben poca cosa e alquanto incerta, quasi come un sogno, la tua invece è brillante, e possiede molte possibilità di incremento, e brilla così con tanta forza da parte tua, che sei così giovane, davanti a più di trentamila Greci che ne furono testimoni».

«Sei impudente, o Socrate», disse Agatone. «Ma di questo giudicheremo fra poco tu e io a proposito della sapienza, avvalendoci di Dioniso come giudice. Ora, anzitutto, volgiti pure alla cena». Dopo di che, continuava Aristodemo, Socrate si sdraiò e cenò come anche tutti gli altri e fecero le libagioni e innalzarono inni in onore del dio e compirono quante altre cose è d'uso fare e si volsero al bere. E Pausania,(7) cominciando a parlare, imbastì un discorso su per giù come questo: «Orsù, amici, in che modo potremo bere il più agevolmente possibile? Perché io vi dico proprio che, in realtà, dopo la bevuta di ieri, mi trovo alquanto a disagio e ho bisogno di un certo sollievo, come penso anche parecchi di voi: ieri infatti eravate presenti. Pensate dunque in che modo possiamo bere nel modo che ci torni più lieve».

E Aristofane (8) aggiunse: «In questo dici proprio bene, Pausania. Occorre escogitare in ogni modo un qualche sollievo al bere: perché anch'io sono uno di quelli che ieri vi si sono tuffati».

E uditili Erissimaco, figlio di Acumeno, esclamò: «Dite davvero bene! Ma ho bisogno di sentire ancora uno di voi come se la passa a proposito di avere la forza di continuare a bere, Agatone». «Niente affatto», rispose quello: «nemmeno io ho più forza di andare avanti».

«Possa assisterci Ermes! », continuò Erissimaco. «Come pare a me, ad Aristodemo, a Fedro e a questi altri, se voi che siete stati sempre i più resistenti a bere, ora invece rinunziate a farlo; noi invece, da sempre, siamo poco portati a bere. Faccio eccezione per Socrate in questo discorso. Lui è ben capace di cavarsela nell'uno e nell'altro modo, tanto che sarà ben contento in qualunque modo noi facciamo. Ma poiché mi pare che nessuno dei presenti sia ben disposto a bere molto vino, forse dovrei riuscirvi meno spiacevole se, parlando intorno all'ubriacarsi, io espongo la verità qual è. A me infatti, come penso, questo è apparso chiaro dalla pratica con la medicina, che l'ubriacarsi è cosa dannosa per gli uomini. Né io di mia spontanea volontà vorrei trovarmi troppo avanti nel bere, né lo consiglierei a un altro, specialmente se ha gozzovigliato anche il giorno precedente».

«Certamente», disse interrompendolo Fedro di Mirrinunte:(9) «io son sempre abituato a darti ascolto, specialmente quando tratti di medicina: e ora lo faranno anche gli altri, se vorranno decidere per il bene». Udendo queste considerazioni tutti concordarono di fare la riunione in quella circostanza senza ubriacature, ma che bevessero, così , a loro gusto.

A quel punto continuò Erissimaco: «Siccome è sembrato bene che ciascuno beva quanto desidera e non vi sia costrizione alcuna, consiglio allora di accomiatare la flautista, che è entrata in questo momento, che vada a suonare per sé dove vuole o per le donne di casa, e noi, oggi, di starcene insieme fra noi a fare i nostri discorsi. E quali discorsi poi, se volete, desidero anche suggerirveli». Tutti risposero di sì e desiderarono anche incoraggiarlo a dare il suo suggerimento. Disse dunque Erissimaco: «L'inizio del mio discorso avviene come nella Melanippide di Euripide.(10) L'argomento che sto per svolgere non è mio, ma di Fedro, qui presente.

Fedro, infatti, ogni volta pieno di irritazione mi parla: "Non è curioso", mi dice, "Erissimaco, che mentre per gli altri dèi sono stati composti dai poeti inni e peani, per Eros invece, che è un dio tanto grande e importante, nemmeno uno di questi poeti abbia mai composto un solo encomio? Se prendi a considerare i migliori sofisti, ad esempio l'ottimo Prodico,(11) scrivono sempre in prosa encomi di Eracle e altri. E questo è ancor meno da suscitare meraviglia, perché mi è capitato un libro di un saggio nel quale si trattava del sale con sorprendenti elogi circa la sua utilità; e molte altre cose siffatte potresti vedere ricoperte di elogi, e consumarsi tanto zelo su inezie simili, ma nessuno degli uomini, fino al giorno d'oggi, ha osato di ritenere cosa degna innalzare inni in onore di Eros: fino a questo punto non ci si prende cura di un dio tanto grande!". E a me pare che a questo proposito Fedro dica bene. Desidero dunque dedicargli la mia benevolenza e dargli soddisfazione e mi pare che, in questo momento, per noi qui radunati, sia ben conveniente onorare questo dio. Se questo pare giusto anche a voi, vi sarebbe un adeguato impiego di tempo per i nostri discorsi. A me pare che ciascuno di noi debba comporre un discorso in lode di Eros, a cominciare da destra, e che sia il più bello che può: e che a dare inizio per primo sia Fedro, perché è sdraiato in prima posizione ed è anche il padre del discorso».

«Nessuno voterà contro dite, Erissimaco», disse Socrate, «non certo io che sostengo di non sapere niente altro se non d'amore e neppure Agatone e Pausania, e nemmeno Aristofane che passa tutto il tempo tra Dioniso e Afrodite, e nessun altro di quelli che io vedo qui, sebbene per noi che siamo sdraiati qua come ultimi, tutto questo non avviene alla pari. Ma se quelli che parleranno prima diranno bene e a sufficienza, potrà bastarci. Ma con buona fortuna cominci Fedro e tessa le lodi di Amore».

Anche tutti gli altri si dissero d'accordo e invitavano a fare quello che aveva detto Socrate. Di tutte le cose che ciascuno disse non poteva ricordarsi Aristodemo e neppure io tutto quello che lui mi raccontò. Ma i punti più salienti dunque e quelli di cui mi sembrò degno conservare la memoria, di questi appunto io narrerò a voi il discorso di ciascuno.

Per primo a parlare, come dico - raccontava Aristodemo -, fu Fedro che cominciò un presso a poco di qui, che Amore è un dio grande e degno di suscitare meraviglia tra uomini e dèi, per vari e parecchi motivi, ma non meno per la sua nascita. Il fatto che tra gli dèi è il più antico a essere tenuto in pregio, sosteneva egli, è prova di questo: non esistono i genitori di Amore e non se ne è parlato da parte di nessuno, né prosatore, né poeta, ma Esiodo afferma che in un primo tempo c'era il Caos «poi in seguito la terra dall'ampio seno, sempre sede sicura di tutte le cose e Amore». (12) Con Esiodo concorda anche Acusilao, (13) dicendo che dopo il Caos sorsero questi due: la Terra e Amore. Parmenide narra così la genesi dell'universo: «per primo fra tutti gli dèi si prese cura di Amore».(14) E così da ogni dove si è d'accordo che Amore è il più antico. Oltre ad essere il più antico per noi è anche cagione di beni più grandi. Infatti non so dire quale bene sia più grande, subito, mentre uno è giovane che avere un eccellente amatore, e, per l'amatore un eccellente giovanetto. Perché quel che deve essere il punto di riferimento per tutta la vita per coloro che si propongono di vivere nobilmente, questo appunto non possono determinarlo tanto bene né parentela, né onori, né ricchezza, niente altro insomma come Amore. Ora, cosa posso dire sia questo?

Vergogna per le turpitudini, desiderio di gloria per le belle imprese. E senza di queste non è possibile che una città né un uomo possano compiere belle azioni. E sostengo pure che un uomo quando ama se viene scoperto a compiere cosa indegna o subire torto da qualcuno senza che si difenda per mancanza di coraggio non prova tanto dolore quando è visto dal padre, dagli amici, da qualunque altro, quanto ne prova se è visto dal proprio amato. La stessa cosa osserviamo che avviene anche in colui che è amato, che si vergogna in ben altra maniera dei propri amatori, quando viene sorpreso in qualche mala azione. Se vi fosse dunque qualche possibilità perché una città o un esercito fossero costituiti per intero da amatori e da amati, non vi è modo per cui potessero disporre meglio la propria esistenza tenendosi lontani da ogni bruttura e gareggiando tra di loro in desiderio di gloria, e combattendo insieme gli uni con gli altri, essi vincerebbero, anche se in pochi, per così dire, tutti gli uomini.

Infatti l'uomo che ama sarebbe disposto ad essere visto da tutti gli altri mentre abbandona la posizione o getta via le armi più che dal proprio amato e sceglierebbe di morire più volte invece di questo.

E quanto ad abbandonare l'amato o non portargli aiuto quando corre pericolo non c'è nessuno vile a tal punto che amore stesso non lo renda pieno di ardore in valore, tanto da eguagliarlo anche a chi è valorosissimo per natura; e insomma quel che sostiene Omero, che un dio ispira coraggio in taluni eroi, questo, conservandolo presso di sé Amore offre agli amanti. E solo quelli che amano sono pronti anche a morire, e non solo in quanto uomini, ma anche le donne. E di questo la figlia di Pelia, Alcesti offre sufficiente testimonianza ai Greci su questo nostro discorso, essendo pronta essa sola a morire per il proprio uomo, pure avendo egli ancora il padre e la madre che essa vinse a tal punto in affetto a causa del suo amore che li mostrò estranei rispetto al loro figliolo e parenti soltanto di nome e così facendo parve aver compiuto un'opera nobile non solo agli uomini ma anche agli dèi, tanto che essi concessero questo dono solo a pochissimi fra i tanti che pure avevano compiuto molte e nobili imprese, di lasciare tornare indietro dall'Ade la loro anima, quella di Alcesti la rimandarono di nuovo in vita, pieni di ammirazione per quel che aveva compiuto: così anche gli dèi onorano soprattutto lo slancio e il valore che è insito nell'amore.

Orfeo (15) invece, figlio di Eagro, lo fecero tornare indietro dall'Ade senza risultato, mostrandogli soltanto una immagine della sua donna, per la quale aveva compiuto il viaggio, ma non concedendogliela, perché, da suonatore di cetra quale era, era apparso piuttosto vile, e non aveva osato, in virtù del proprio amore, morire come Alcesti, ma aveva escogitato un espediente per penetrare vivo nell'Ade.

Per queste ragioni gli fecero pagare lo scotto e disposero che la sua morte avvenisse ad opera di donne, non certo nella maniera con cui onorarono Achille, (16) figlio di Teti, che essi mandarono anche nelle isole dei beati poiché, pur sapendo dalla madre che sarebbe morto dopo aver ucciso Ettore, e che non facendo questo se ne sarebbe tornato a casa a morire da vecchio, osò scegliere di recare aiuto a Patroclo, suo amante, e non solo di morire cogliendo la propria vendetta, ma di fare seguito subito con la propria morte a lui che era appena morto. Per questo gli dèi, stracolmi di ammirazione, lo onorarono diversamente da ogni altro, poiché aveva fatto così gran conto del proprio amante. Eschilo dice delle frottole quando sostiene che Achille era l'amante di Patroclo, poiché egli era più bello non solo di Patroclo, ma di tutti gli eroi, e ancora imberbe, poi anche molto più giovane come dice Omero. Ma in realtà gli dèi onorano particolarmente questa virtù che è insita in amore e ancor più ammirano e si compiacciono e fanno del bene quando è l'amato che rivela il suo amore all'amante, che non quando è l'amante (17) a rivelarlo all'amato. L'amante infatti è un qualcosa di più divino dell'amato, perché è pieno di ardore da parte del dio. Proprio per questo essi hanno onorato Achille ancor più di Alcesti, mandandolo alle isole dei beati. Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli dèi, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi e da morti, all'acquisto della virtù e della felicità.

Aristodemo raccontava che Fedro aveva tenuto un discorso presso a poco come questo, e dopo Fedro avevano pure parlato alcuni dei quali egli non si ricordava bene e quindi, lasciandoli da parte, cominciò ad esporre il discorso di Pausania. Ed egli disse: «Non mi sembra, o Fedro, che sia stato proposto bene il discorso da noi, a svolgerlo semplicemente così , cioè a tessere gli elogi di Amore. Perché se Amore fosse soltanto uno, andrebbe bene così , ma egli non è uno solo, e poiché non è soltanto uno, è più giusto, prima di parlare, dire quale si deve lodare. Io dunque tenterò di correggere questo lato, col dire anzitutto l'Amore che si deve lodare, poi di tesserne le lodi in maniera degna di un dio.

Sappiamo tutti infatti che Afrodite non è senza Amore. Dunque se essa fosse una sola, uno sarebbe Amore. Ma siccome ve ne sono due, ne segue necessariamente che due siano anche gli Amori. Una è più antica, non ha madre, è figlia di Urano ed è quella che chiamiamo Urania; l'altra più giovane, figlia di Zeus e di Dione è quella che chiamiamo Pandemia.(18) Ne consegue dunque che anche Amore, quello che si accompagna con la seconda, venga chiamato giustamente Pandemio, l'altro invece Uranio.

Occorre dunque lodare tutti gli dèi, ma occorre anche cercare di dire quello che l'uno e l'altro hanno avuto in sorte di peculiare.

Ogni modo di agire è così infatti; quello che viene compiuto di per sé non è né bello né brutto; quanto noi facciamo in questo momento, o bere, o cantare, o intrattenerci a parlare, nessuna di queste cose è bella di per sé, ma nel modo di farla, come viene fatta, tale riesce. Quello che viene fatto bene e correttamente risulta bello, quello che non è fatto bene è brutto. Così è anche l'amare: e non ogni Amore è bello e meritevole di essere lodato, ma soltanto quello che spinge ad amare bene.

L'Amore che si accompagna ad Afrodite Pandemia è veramente volgare e agisce come gli capita. Ed è proprio quello che amano gli uomini di poco conto: essi per prima cosa amano le donne non meno che i giovanetti, e di questi poi amano più i corpi che le anime e poi hanno presa solo sui più insensati, guardando solo di mandare ad effetto il loro desiderio senza darsi pensiero se questo avviene in bella maniera o no. Di qui accade loro che capitino a fare questo, sia bene che male. E questo infatti avviene alla dea che è molto più giovane dell'altra e che per origine è partecipe sia della femmina che del maschio. Quello invece che proviene da Urania, in primo luogo ha parte non della femmina, ma solo del maschio, ed è questo l'amore per i giovanettt, poi essa è più anziana ed è priva di tracotanza: perciò quelli che sono ispirati da questo dio sono attratti verso il maschio amando quello che per natura è più forte e ha maggiore senno.(19) Ed anche in questo tipo di amore per i giovanetti si può riconoscere chi è mosso sinceramente da questa maniera di amare: non li amano infatti fin da fanciulli, ma quando cominciano ormai ad acquistare intelligenza e questo si accompagna allo spuntare della barba.

Infatti io penso che quelli che cominciano ad amarli da questo momento sono preparati a stare insieme tutta la vita a a convivere in comunanza, e non a ingannarli, come cogliendo uno da giovane in un momento di sconsideratezza, abbandonarlo con ogni derisione e correre dietro a un altro. Occorrerebbe dunque una legge ad impedire che si amino i fanciulli per non spendere inutilmente tanto zelo verso un qualcosa dì incerto. Non è chiara infatti la riuscita dei giovanetti ove potrà concludersi per colpa e per virtù sia per quel che riguarda l'anima che il corpo. Di buon grado gli uomini assennati questa legge se la pongono da sé, ma occorrerebbe anche che questi amatori volgari fossero piegati a fare altrettanto, come noi li pieghiamo, per quanto ci è dato, a non amare donne nate libere. Sono essi infatti che creano tanta vergogna, tanto che alcuni osano dire che è cosa turpe mostrarsi compiacenti a quelli che amano. Lo dicono, osservandoli attentamente, e vedendone la inopportunità e la nequizia, poiché nessuna cosa se avviene nell'ambito della compostezza e delle buone maniere può essere giustamente sottoposta a biasimo.

E ancor più la norma per i casi di Amore nelle altre città è facile da capire ed è delimitata con semplicità. Qui invece ed anche a Sparta è intricata: nell'Elide infatti e tra i Beoti e anche ove non sono abili a parlare è stato disposto con semplicità che avere compiacenza per chi ama è cosa bella, e nessuno, giovane o vecchio, direbbe che è cosa brutta, per non avere la questione, penso, di dover tentare di convincere i giovani a parole, essi che non hanno tante capacità a parlare. Nella Ionia invece e altrove in parecchi luoghi è ritenuta cosa brutta, specie da quanti si trovano sotto il dominio dei barbari. Per i barbari infatti anche a causa delle tirannie cui sono sottoposti questo riesce brutto come anche la filosofia e l'amore per l'educazione fisica. Non conviene infatti a chi comanda, penso io, che nei sudditi si ingenerino grandi modi di pensare né amicizie sicure, né comunanze, che soprattutto l'amore, tra le tante altre cose, è solito determinare.

Di fatto questo lo capirono anche i tiranni di qui. Infatti l'amore di Aristogitone e l'affetto di Armodio, divenuto ben sicuro, infransero il loro dominio. (20) E così dove fu posto che avere compiacenza per gli amanti è cosa brutta questo avvenne per viltà di quelli che lo disposero, per la tracotanza dei governanti e per la mancanza di coraggio dei sudditi; ove fu posto semplicemente che è cosa bella, questo avvenne per l'indolenza d'animo di chi lo predispose; qui è stata disposta una norma molto più bella, ma come dicevo non è facile da comprendere. Per chi medita, infatti, si dice che è cosa più bella amare manifestamente che di nascosto, e specialmente i più nobili e migliori anche se sono più brutti, e che il sostegno concesso da parte di tutti a chi ama è meraviglioso, come fosse rivolto non a chi compie una cosa brutta, e che pare bella a chi riesce a coglierla e brutta invece a chi non vi riesce, e che per riuscire a cogliere quello che ha intrapreso la nostra consuetudine offre all'amante la possibilità di compiere cose incredibili e di esserne anche lodato; cose che se uno osasse compierle inseguendo qualunque altro obiettivo e volesse compierle ad eccezione di questo, ne ricaverebbe la più gran vergogna da parte della saggezza.(21) Se uno infatti per accumulare ricchezze, per ottenere una carica o qualche altro potere, volesse fare quello che gli amanti fanno per gli amati, le suppliche, le preghiere in mezzo alle ripetute istanze, i giuramenti che compiono, le dormite presso le porte, gli atti di servaggio che desiderano compiere quali non farebbe nessun servo, sarebbe impedito a compiere similì gesta da amici e nemici, gli uni cercando di farlo vergognare per le sue adulazioni e i suoi atti servili, gli altri cercando di ammonirlo e provocando vergogna per lui: mentre se tutte queste cose le compie uno che ama ne ottiene benevolenza, e dal nostro costume gli viene concesso di farle senza vergogna, come se si facesse una cosa assolutamente bella. E, quel che è più sorprendente, come sostengono i più, è che a lui solo, quando ha giurato, viene usata indulgenza da parte degli dèi se va oltre i giuramenti, perché dicono che non è un giuramento quello d'amore. Così gli dèi e gli uomini hanno concesso ogni possibilità a chi ama, come indica chiaramente il costume qui in vigore. E sotto questo aspetto si potrebbe pensare che in questa città è ritenuta cosa bellissima e l'amare e l'essere benevoli a chi ama. Ma allorché i padri collocano accanto ai loro ragazzi dei pedagoghi e non consentono a quelli che sono amati di parlare con gli amanti, e al pedagogo vengono imposte tassativamente queste disposizioni, i coetanei e i loro compagni li scherniscono se vedono accadere un qualcosa di simile, e i più attempati non trattengono né rimproverano quelli che sollevano il biasimo, come se dicessero cose non giuste: se uno dunque osserva queste cose potrebbe pensare a sua volta che qui un tal modo di amare è considerato molto brutto. Ma la questione non è semplice, come si è detto all'inizio e, in sé e per sé, non è né bella né brutta, ma quel che viene fatto bene è bello, e brutto quel che vien fatto male. è cosa brutta quando si ha compiacenza per uno abbietto e in maniera abbietta, è bella invece quando la si prova per uno meritevole e in maniera bella. Abbietto è l'amante volgare, innamorato più del corpo che dell'anima: non è un individuo che resti saldo, come salda non è nemmeno la cosa che egli ama. Infatti quando svanisce il fiore della bellezza del corpo del quale era preso "si ritira a volo" (22) ad onta dei molti discorsi e delle promesse. Chi invece si è innamorato dello spirito quando è nobile resta costante per tutta la vita perché si è attaccato a una cosa che resta ben salda. Il nostro costume esige dunque che costoro vengano ben provati e che a questi si dia compiacenza, e quelli invece vengano rifuggiti. Per questi motivi dunque spinge ad inseguire questi e a rifuggire quelli, nell'intento di giudicare e provare a quale mai delle due specie appartenga l'amante e a quale l'amato. Così , secondo questo motivo, si ha l'abitudine di giudicare brutto per prima cosa il farsi conquistare subito, perché si chiede che sopraggiunga tempo, quello che pare mettere bene alla prova molte cose; poi viene considerato brutto farsi prendere dalla speranza di ricchezza o di potere politico, sia che uno subendo un'offesa si prenda paura e non si mostri capace di reagire, sia che venendo beneficiato in ricchezze o in maneggi politici non ne dimostri il doveroso distacco. Nessuna infatti di queste due cose pare sicura e salda, anche se si eccettua il fatto che da esse per natura non può venire una nobile amicizia. Secondo il nostro costume dunque resta una sola via se l'amato vuole provare compiacenza in bella maniera all'amante. Noi abbiamo dunque questo costume: come per gli amanti non era adulazione né vergogna voler servire qualunque servitù per i loro amati, così rimane un'altra sola servitù, volontaria essa pure e non vergognosa, ed è proprio quella che riguarda la virtù. è sempre stata consuetudine da noi che se uno vuole assumersi una qualche servitù ritenendo che mediante quella diverrà migliore o in saggezza o in qualche altro aspetto della virtù, questa servitù volontaria non debba essere considerata disdicevole e nemmeno adulatoria. Occorre che queste due usanze si conciliino in una sola, l'una che riguarda l'amore per i giovinetti e l'altra la filosofia e ogni altra branca della virtù, se deve accadere che sia bello per un giovanetto provare compiacenza per il proprio amante. Quando infatti l'amante e il giovinetto giungano allo stesso punto, avendo ciascuno la propria linea di condotta, l'uno pronto a servire il giovanetto che lo ha compiaciuto in qualunque cosa è giusto servirlo (23) l'altro che è pronto ad aiutare chi lo rende saggio e buono in tutto quello che è giusto aiutarlo, e l'uno che può contribuire per l'altro verso la saggezza e ogni altra forma di sapienza, a questo punto concorrendo queste due linee di condotta allo stesso punto, soltanto in questo frangente accade che sia bello per un giovanetto compiacere il proprio amante, non in altro. In questo caso, anche essere ingannato non comporta nulla di brutto: in tutti gli altri invece ne viene vergogna, sia per chi è ingannato, sia per chi non lo è. Se infatti un giovanetto ha compiaciuto il proprio amante, credendolo ricco, proprio per averne ricchezze, ed essendo ingannato non ne ha ricevuto, perché l'amante si è rivelato povero, la cosa è non di meno brutta. Pare infatti che un giovane di tal fatta, per denaro avrebbe dimostrato di assoggettarsi a qualunque cosa e per chiunque, e questo non è certo bello. Secondo lo stesso ragionamento anche se uno è stato compiacente con un amante che ha creduto buono e col proposito di diventare egli stesso migliore attraverso l'amicizia con l'amante, e viene ingannato, poi si è mostrato che quello è uno da poco e non possiede virtù, tuttavia, questo inganno è bello: pare infatti che anche questo giovane abbia dimostrato, secondo le sue possibilità, che, per la virtù e per divenire migliore, era disposto a tutto e con chiunque, e questa è senza dubbio la cosa più bella fra tutte. è bello in tutti i modi dunque a causa della virtù mostrarsi compiacenti. Questo dunque è l'amore della dea celeste ed è celeste esso stesso e degno di molta considerazione e in città e per i singoli cittadini, perché spinge sia colui che ama, sia l'amato, ognuno nel proprio ambito, a prendersi molta cura per il conseguimento della virtù. Tutti gli altri tipi di amore appartengono all'altra Afrodite, quella volgare.

Queste considerazioni», disse, «sull'amore io ti espongo, o Fedro, come mio contributo per l'immediato».

Quando Pausania fece pausa, sono i sapienti a insegnare a me simili espressioni in tal guisa, Aristodemo disse che doveva parlare Aristofane, ma a lui, o per sazietà o per altro motivo, capitava di essere stato colto dal singhiozzo e non era in grado di parlare, ma si appellò a lui - alla sua destra se ne stava sdraiato il medico Erissimaco -: «Erissimaco, a questo punto occorre che tu mi faccia cessare questo singhiozzo o che tu parli in vece mia, finché non mi sarà passato».

Ed Erissimaco gli rispose: «Farò l'una e l'altra cosa insieme: io parlerò per la tua parte, e tu, quando ti sarà passato, per la mia: ma tu, intanto che io parlo, stando per lungo tempo senza respirare, farai passare così , spontaneamente, il singhiozzo. Se no fai dei gargarismi con acqua. Ma se resiste alla grande, prendi pure un qualcosa da irritare il naso e fai degli starnuti. E quando avrai fatto questo una o due volte, anche se è del tutto insistente, ti passerà». «Comincia pure a parlare», rispose Aristofane, «io farò così ».

Erissimaco dunque disse: «Siccome Pausania ha dato inizio al suo discorso molto bene, ma non lo ha sufficientemente concluso, mi pare che sia necessario tentare di porre io una conclusione al suo dire. Che amore dunque sia duplice, pare a me che sia un distinguere bene. Che però si trovi non solo nelle anime degli uomini per i belli e per molte altre cose, e si trovi pure altrove, come nei corpi di tutti gli animali, in tutto quello che è generato dalla terra e, per così dire, in tutto quello che è, credo di aver potuto osservarlo bene dalla medicina, la nostra arte, che questo è un dio grande e meraviglioso ed estende la sua influenza su tutte le cose umane e su quelle divine. Comincerò dunque a dire, partendo dalla medicina, anche per rendere omaggio all'arte.

La natura dei corpi infatti possiede in sé questo duplice amore: la salute del corpo infatti e la malattia sono, per comune consenso, cose diverse e dissimili, e il dissimile desidera ed ama i dissimili.

Altro dunque è l'amore nella parte sana, altro nella parte malata.

Come sosteneva poco fa Pausania è bello mostrare compiacenza agli uomini buoni, è brutto invece mostrarla agli abbietti, così è anche per gli stessi corpi che è bello compiacere, dare soddisfazione e si deve alle parti buone e sane di ciascun corpo, e questo è appunto quello cui si attribuisce il nome di medicina, mentre è brutto e non si devono compiacere le parti brutte e malate di essi, se uno intende essere in linea con l'arte. La medicina infatti, per dirla in breve, è la conoscenza degli impulsi erotici del corpo alla pienezza e alla vacuità e colui che riconosce in questi l'amore bello e quello brutto, questo è proprio il medico più sagace, e chi è capace poi di farne il cambio, tanto che invece di un amore se ne procuri un altro e, ove l'amore non c'è e occorre che ci sia, sa ingenerarlo e toglierlo da dove esiste, questo è realmente un artefice senza pari. Occorre anche che le parti del corpo che sono tra di loro particolarmente nemiche egli sia in grado di renderle amiche e dì amarsi tra di loro. Le cose più nemiche fra loro sono quelle contrastanti al massimo grado, come il caldo al freddo, l'amaro al dolce, il secco all'umido, e tutte le altre cose consimili. E ben sapendo come ingenerare amore e concordia in esse il nostro progenitore Asclepio, come dicono questi poeti, e io ne sono convinto, pose le fondamenta alla nostra arte. La medicina dunque è tutta regolata da questo dio: allo stesso modo avviene per la ginnastica e l'agricoltura. La musica poi, è evidente per chiunque, purché rivolga attenzione a queste cose anche per un po', si trova nella stessa condizione, come forse vuole dire anche Eraclito, mentre non si esprime bene nel suo detto: "L'uno", egli afferma, "che è in dissenso con sé stesso può anche accordarsi come armonia di arco e di lira". (24) Ed è molto paradossale affermare che l'armonia si trovi in dissenso o che sussista da principi ancora discordanti.

Ma probabilmente voleva intendere che l'armonia è generata dall'arte musicale da princì pi, l'acuto e il grave, che erano discordi in un primo tempo e poi si sono accordati. Certamente infatti, se l'acuto e il grave non cessano di essere discordi, l'armonia non può sussistere. Armonia infatti è accordo e l'accordo è assenso, ma l'assenso, da princì pi discordi, finché sono in discordanza, è impossibile da realizzare, (25) e ciò che è discorde e che non ammette assenso è impossibile da armonizzare. Così anche il ritmo sussiste dall'andante e dal lento, in un primo tempo discordi, poi accordati. In tutti questi aspetti poi il consenso, là, lo ingenera la medicina, qui, la musica che determinano amore e armonia fra di loro. Così anche la musica è conoscenza di impulsi d'amore circa l'armonia e il ritmo. E così nella formazione stessa dell'armonia e del ritmo non è difficile riconoscere gli impulsi d'amore, né qui l'amore è duplice.

Ma quando ci si deve avvalere del ritmo e dell'armonia per gli uomini, o quando si fanno componimenti, che chiamano melici, o quando ci si avvale correttamente della melica già composta e dei metri, cosa che viene chiamata preparazione, allora diventa cosa proprio ardua ed è necessario un ottimo artefice. Ed infatti torna di nuovo lo stesso discorso, che agli uomini educati, e al fine di rendere più educati quelli che ancora non lo sono, bisogna attribuire compiacenza e curare benevolmente il loro amore, e questo è l'Amore della Musa Urania. Ma all'Amore di Polinnia, il volgare, bisogna fare ricorso con attenzione da parte di chi vi ricorre, di modo che si gusti il piacere che viene da esso, ma non cagioni alcuna intemperanza, come, anche nella nostra arte, è un compito importante valersi bene dei desideri che riguardano l'arte culinaria, in modo che se ne possa cogliere il piacere senza malanno. E così nella musica, nella medicina, e in tutte le altre attività umane e divine, per quanto è dato, bisogna bene osservare l'uno e l'altro di questi amori: infatti sussistono ambedue.

Perché anche la formazione delle stagioni è piena di ambedue questi elementi; e quando quelli contrastanti dei quali parlavo poco fa, come il freddo e il caldo, il secco e l'umido, incontrano l'un l'altro per sorte un amore equilibrato e ricevono armonia e adeguata congiunzione, allora giungono portando prosperità e salute agli uomini, agli altri esseri viventi, alle piante e non recano alcun guasto. Ma quando invece l'Amore diventa incontenibile e infuria violento durante le stagioni dell'anno, produce guasti e distrugge molte cose. I contagi infatti e molte diverse malattie contro le bestie e le piante traggono origine, di solito, da simili cause: le gelate, le grandinate, le ruggini delle piante avvengono per la soverchieria e il disordine reciproco insito in tali forme dì attrazione, la scienza delle quali, per quei che riguarda il movimento degli astri e l'alternarsi delle stagiOni, viene chiamata astronomia.

E ancora tutti i sacrifici e le attività cui sovrintende la mantica - cioè i rapporti di comunanza che sussistono fra uomini e dèi - non riguardano altro se non la sorveglianza e la cura di Amore.

Ogni forma di empietà del resto suole avvenire se non si compiace, non si onora, non si venera l'Amore equilibrato in ogni azione, ma l'altro amore, verso i genitori, vivi o morti, e anche verso gli dèi. Cose che sono state assegnate alla divinazione per proteggere e curare gli amanti, ed è proprio la mantica autrice della amicizia fra uomini e dèi per conoscere bene, tra le spinte d'amore degli uomini, quelle che tendono alla giustizia e alla pietà.

Così molteplice, grande, anzi senza limiti è il potere che Amore ha nella sua integrità, ma quello che con misura e giustizia raggiunse il suo termine nel bene per noi uomini e per gli dèi, questo possiede la potenza più grande e ci procura ogni felicità, ci mette in grado dì vivere in comunanza e di essere amici tra di noi e con quelli che sono migliori di noi, vale a dire gli dèi. Forse anch'io tessendo le lodi di Amore ometto molte cose, ma non per mia scelta. Se ho tralasciato qualche aspetto, è compito tuo, Aristofane, colmarne il vuoto. Ma se ti proponi di elogiare il dio in altro modo, fallo pure ora che ti sei liberato dal singhiozzo».

Aristodemo disse dunque che subentrò Aristofane e disse che, sì , gli era passato ma non prima che vi avesse applicato lo starnuto, tanto che «Mi son meravigliato se l'equilibrio del corpo ha bisogno di strepiti e sollecitamenti quali lo starnuto.

Tuttavia non appena gli ho applicato lo starnuto è passato subito». Ed Erissimaco intervenne: «O buon Aristofane, guarda bene quel che fai: ti metti a scherzare quando devi parlare, e mi obblighi a fare la guardia al tuo discorso, nel caso che tu abbia a dire delle ridicolaggini, mentre ti è pur possibile parlare in pace». E Aristofane, ridendo, rispose: «Dici bene, Erissimaco, e quel che ho detto, sia come non detto. Ma tu non fare la guardia a me, perché io temo, riguardo le cose che sto per dire, di non combinare un discorso da ridere, che sarebbe pure un guadagno e molto congeniale alla mia Musa, ma piuttosto un discorso da irridere».

«Pur lanciando il colpo», rispose Erissimaco, «pensi di ritrarre la mano. Ma presta bene attenzione e parla in modo come se dovessi darne ragione. E forse, se ne avrò l'estro, io ti lascerò fare».

«Caro, Erissimaco», rispose Aristofane, ho in mente di esprimermi in maniera diversa da quelle con cui avete parlato tu e Pausania.

A me infatti pare che gli uomini non conoscano assolutamente la potenza di Amore, perché, se la conoscessero, gli innaizerebbero templi ed altari grandissimi, e farebbero in onor suo grandissimi sacrifici, non come ora che di queste celebrazioni per lui non si fa nulla, mentre sarebbe pur necessario che fra tutti si facessero particolarmente per lui. Egli infatti, tra gli dèi, è il più benevolo agli uomini, perché è loro soccorritore ed è anche medico di tali malanni, che, se condotti a guarigione, grandissima prosperità ne verrebbe al genere umano. Io tenterò dunque di esporvi tutta la sua potenza, e voi, a vostra volta, ne sarete maestri agli altri. Ma anzitutto occorre che conosciate la natura umana e i suoi casi: giacché la natura di noi uomini, un tempo, non era la stessa, quale è ora per noi, ma diversa. Per prima cosa tre erano i generi della stirpe umana, non due come ora, maschio e femmina, ma ve n'era anche un terzo che era comune ad ambedue questi, del quale, oggi, resta soltanto il nome, ma esso si è perduto.

Infatti l'androgino allora era un genere a sé e aveva forma e nome in comune dal maschio e dalla femmina, ora invece non c'è più, ma resta soltanto il nome sotto forma di ignominia. La forma di ciascun uomo era rotonda: aveva la schiena e i fianchi di aspetto circolare, aveva pure quattro mani, quattro gambe e due volti su un collo rotondo, del tutto uguali. Sui due volti, che poggiavano su una testa sola dai lati opposti, vi erano quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come può immaginarsi da tutto questo. Si camminava in posizione eretta, come ora e ove si voleva; e quando si disponevano a correre velocemente, come i saltimbanchi, a gambe levate, fanno capitomboli di forma circolare, così essi, facendo perno sulle otto gambe, si muovevano velocemente in cerchio. Erano poi tre generi e combinati in questo modo per queste ragioni, perché il maschio aveva tratto la propria origine genetica dal sole, la femmina dalla terra, ma l'uno e l'altra avevano poi parte in comune dalla luna, poiché anche la luna ha parte di ambedue essi. Erano formati in questo modo e il loro andare assumeva la forma di cerchio per il fatto di essere simili ai loro genitori. Quanto a forza e vigore erano terribili e nutrivano un sentire orgoglioso, e quello che dice Omero a proposito di Efialte e di Oto, (26) che tentarono di dare la scalata al cielo per imporsi agli dèi, si riferisce loro. Zeus dunque e gli altri dèi si radunarono a consiglio per stabilire cosa dovevano fare, ma si trovarono nell'incertezza. Non avevano infatti come sopprimerli e farne sparire la razza come i Giganti fulminandoli - sarebbero scomparsi infatti tutti gli onori e i sacrifici da parte degli uomini nei loro riguardi -, né d'altra parte come lasciarli andare all'insolenza. Ma Zeus dopo aver pensato, e con fatica, disse: "Penso di avere un mezzo per il quale gli uomini possano sussistere e cessare la loro insolenza, divenendo più deboli. Dunque ora taglierò ciascuno di essi in due parti eguali e così diverranno più deboli e insieme più utili per noi per essere più numerosi. E cammineranno in posizione eretta, su due gambe. Se parrà poi che persistano nella loro insolenza e non vorranno starsene in pace, li taglierò di nuovo in due, tanto che cammineranno su una gamba sola come quelli che si tengon dritti su un piede solo". Detto ciò si diede a tagliare gli uomini in due come quelli che tagliano le sorbe in due e ne preparano la conservazione, o come quelli che tagliano le uova con un filo. E via via che ne tagliava uno dava ordine ad Apollo di volgergli il volto e la metà del collo verso il taglio, per rendere l'uomo più misurato alla vista del taglio subito ed ordinava pure di curare tutto il resto. E Apollo gli voltava il viso e tirando da ogni parte la pelle sopra quello che ora vien chiamato ventre, come borsette che possono restringersi con uno spago facendone una bocca sola la legava nel mezzo del ventre, ed è quello che ora chiamiamo ombelico. Stendeva poi le altre numerose crepe ed assettava il petto con uno strumento simile a quello che i calzolai usano quando spianano sullo stampo le pieghe del cuoiame; ne lasciava poche intorno alla pancia e all'ombelico, perché fossero di ammonimento dell'antica esperienza. Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell'altra tentava di entrare in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l'un l'altra, se ne morivano di fame e di torpore per non volere fare nulla l'una separatamente dall'altra.

E quando moriva una delle parti e ne restava una sola, quella che sopravviveva ne cercava un'altra e vi si abbracciava, sia che capitasse nella metà di una donna intera, che ora chiamiamo donna, sia in quella di un uomo. E così raggiungevano la morte.

Zeus, avendone pietà, escogitò un altro mezzo e traspose i loro genitali sulla parte anteriore, giacché fino a quel frangente li portavano all'esterno e generavano e partorivano non fra di loro, ma congiungendosi con la terra. Glieli traspose dunque sul davanti, così come è ora, e dispose la creazione loro tramite tra gli uni e gli altri, cioè tra il maschio e la femmina, per queste ragioni, perché se un maschio si imbatteva in una femmina, generassero e dessero continuità alla razza, e insieme se un maschio si incontrava con un maschio, quando fosse giunta la sazietà del loro stare insieme e vi ponessero temine, si volgessero poi ad altra attività e si prendessero cura delle altre faccende della vita. Da tempo dunque è connaturato negli uomini l'amore degli uni per gli altri che si fa conciliatore dell'antica natura e che tenta di fare un essere solo da due e di curare la natura umana. Ciascuno di noi dunque è come un contrassegno (27) d'uomo, giacché è tagliato in due come le sogliole, da uno divenuto due. Ciascuno cerca sempre il proprio segno di riconoscimento. Quanti tra gli uomini sono come il taglio di quell'essere duplice che allora veniva chiamato androgino, sono amanti delle donne e la maggior parte degli adulteri deriva da quel genere e quante fra le donne sono amanti degli uomini e adultere derivano sempre da quel genere. Quante fra loro invece derivano dal taglio di una donna, queste non volgono affatto la loro attenzione agli uomini, ma sono rivolte invece piuttosto alle donne e da questo genere derivano le etere.

Quanti poi derivano dal taglio di un maschio, vanno alla ricerca del maschio, e finché sono fanciulli, poiché sono piccole parti del maschio amano il maschio e godono di giacere e di starsene abbracciati con un maschio, e sono questi i migliori tra i fanciulli e i giovinetti, perché per natura sono i più coraggiosi. Alcuni invece sostengono che questi sono senza vergogna, ma si ingannano: essi fanno questo infatti, non per mancanza di pudore, ma per il loro ardimento e coraggio e per la loro mascolinità bramano quel che è simile ad essi. E ce n'è anche una prova significativa perché, fattisi avanti d'età, soltanto questi entrano nell'attività politica da uomini. E quando poi divengono uomini maturi e amano i ragazzetti, volgono la mente alle nozze e ai figli non per inclinazione naturale, ma perché vi sono tratti dalla consuetudine. A loro basterebbe vivere gli uni con gli altri senza nozze. Uno siffatto dunque ama i fanciulli o è amante di amatori perché aspira sempre a quel che gli è congeniale. E quando dunque questo amatore di fanciulli, o qualunque altro, venga ad imbattersi proprio in quello che è la sua metà, allora sì che restano colpiti per amicizia, familiarità, amore, che non vogliono, per così dire, essere separati neppure per un attimo. E sono proprio questi che continuando a vivere insieme per tutta la vita non saprebbero dire cosa vogliono capiti loro gli uni dagli altri: e a nessuno può sembrare che questo sia soltanto la comunione dei piaceri d'amore, come se solo per questo fossero così contenti di stare insieme l'uno con l'altro e con tanta passione. Ma è chiaro che l'anima dell'uno e dell'altro vuole qualche altra cosa che non è in grado di dire, ma fa congetture e manifesta simbolicamente. Perché se ad essi, proprio nel momento che giacciono insieme si accostasse Efesto (28) con i propri strumenti e domandasse: "Cos'è dunque, uomini, che volete che vi succeda l'uno dall'altro?", e, trovandosi essi in difficoltà, chiedesse ancora: "Forse agognate questo, di congiungervi indissolubilmente l'uno con l'altro in una sola cosa, così da non lasciarvi tra di voi né di giorno né di notte? Perché se bramate questo, sono pronto a fondervi insieme e a comporvi in una sola natura fino al punto che da due diventiate uno solo, e finché restate in vita, vivrete in comune l'un l'altro come un essere solo, e quando poi sopraggiunga la morte, là, nel profondo dell'Ade, siate ancora uno soltanto, invece di due, essendo insieme anche da morti. Ma considerate bene se è proprio questo che amate e se può bastarvi, quando lo abbiate ottenuto". Udendo tali cose, lo sappiamo bene, nessuno si trarrebbe indietro, né darebbe a vedere di volere qualche altra cosa, ma riterrebbe di avere ascoltato una buona volta quello che da tempo desiderava, di congiungersi e di fondersi con l'amato e di due divenire uno solo.

Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti interi: e il nome d'amore dunque è dato per il desiderio e l'aspirazione all'intero. Prima di tutto questo, come dico, eravamo una unità sola, ora invece per la nostra colpevolezza siamo stati dispersi dalla divinità come gli Arcadi dagli Spartani.(29) Vi è timore dunque che se non siamo moderati verso gli dèi, essi ancora una volta ci taglino in due e ci tocchi andare in giro modellati come i bassorilievi nelle stele con l'iscrizione, segati in due nel mezzo del naso, divenuti come le tessere di riconoscimento che si danno agli ospiti. Per questo occorre che ogni uomo si faccia promotore presso ogni altro ad essere pio verso gli dèi, per fuggire alcuni mali, e ottenere invece quei beni, dato che Amore è nostra guida e condottiero. A questo dio nessuno faccia contrarietà - le compie chiunque viene in odio agli dèi -, perché divenuti amici e rappacificati con lui, troveremo e ci imbatteremo nei ragazzetti che diverranno nostri, cosa che ora fanno in pochi. E non mi interrompa Erissimaco, canzonando il mio discorso, come se io accennassi a Pausania e Agatone, perché probabilmente vengono a trovarsi tra questi e ambedue sono maschi per natura. Dico invece per ogni uomo e ogni donna, che solo così il genere umano può diventare felice se diamo soddisfacimento ad Amore ed incontrando ciascuno il proprio amato, volgendoci verso la nostra antica natura. E se questo punto è l'ottimo, ne consegue che tra quelli presenti l'ottimo sia quello che gli è più vicino. E questo è incontrare un amato che per natura ha la mente rivolta a ciò. Inneggiando dunque al dio che ci è causa di queste cose, a buon diritto eleveremmo inni in onore di Amore, che al presente ci giova moltissimo conducendoci a quel che ci è proprio, e per il futuro ci offre grandissime speranze, che se noi faremo dono agli dèi della nostra devozione, riportandoci alla nostra primitiva natura e curandoci ci renderà beati e contenti.

Questo, Erissimaco», disse Aristofane, «è il mio discorso su Amore, diverso dal tuo. Come ti pregavo prima, non metterti a canzonarlo, perché possiamo ascoltare cosa dirà ciascuno di quelli che devono ancora parlare, o meglio quei due, perché non restano che Agatone e Socrate».

«Ti darò ascolto senza dubbio», disse Erissimaco, «perché il tuo discorso secondo me è stato detto molto piacevolmente. E se tu non sapessi che Socrate e Agatone sono profondi nelle questioni d'amore, avrei proprio paura che si trovassero in difficoltà per i loro interventi, tante e varie sono le cose che sono state dette.

Ora, tuttavia, spero bene».

A questo punto dunque intervenne Socrate: «E perché tu il confronto lo hai già svolto bene. Ma se tu fossi al punto nel quale ora mi trovo io, e ancor più, forse, nel quale mi troverò quando anche Agatone avrà parlato e bene, dovresti veramente avere paura e ti troveresti in ogni difficoltà, come io ora».

«Vuoi dunque ammaliarmi», saltò su Agatone, «perché io mi emozioni, ritenendo che il teatro abbia grande attesa nei miei confronti se parlerò bene».

«Sarei proprio di memoria corta», rispose Socrate, «se dopo aver visto il coraggio e la disinvoltura con cui sei salito sul palco, insieme agli attori, e come hai affrontato lo sguardo di quella platea gremita, mentre stavi per esporre i tuoi ragionamenti, senza essere per nulla impressionato, ora io dovessi pensare che tu ti lasci emozionare da noi che siamo pochi uomini».

«Ebbene, Socrate?», ribatté Agatone. «Non penserai certo che io sia così reso fanatico dal teatro da non comprendere che, per chi ha un po' di senno, pochi uomini, con la testa sul collo, sono più temibili che un mucchio di dissennati».

«Non farei bene», rispose Socrate, «pensando in modo grossolano sul conto tuo. So bene che se tu ti imbatti in pochi, che ritieni saggi, ti preoccupi più di questi che di tutta una folla. Ma noi non siamo di quelli, eravamo presenti anche là e facevamo parte della moltitudine; ma se tu ti imbatterai in altri saggi, di loro forse potresti provare soggezione, se dovessi mai pensare di fare una parte non bella. Oppure come vuoi esprimerti?» «Dici la verità», rispose. Allora Fedro, interrompendolo, disse: «Se rispondi a Socrate, caro Agatone, non gli importerà nulla ove si vada a parare con i nostri argomenti di qua, solo che egli abbia qualcuno con cui intavolare una discussione, soprattutto poi su un bel ragazzo.

Io ascolto volentieri Socrate quando discute, ma qui è necessario che mi curi dell'elogio di Amore e di raccogliere da ciascuno di voi il vostro intervento. Facendo dunque per ciascuno la vostra offerta al dio, poi intavolate pure la discussione».

«Dice bene, Fedro», soggiunse Agatone: «nulla mi impedisce di parlare. Spesso, infatti, potrò discutere con Socrate. Anzitutto desidero dire in che modo occorre che io dica, poi dirò. A mio parere, infatti, tutti quelli che hanno parlato prima non hanno fatto l'elogio del dio, ma hanno celebrato la felicità degli uomini per i beni dei quali il dio è causa per loro. Ma nessuno ha detto qual è questo dio che ci ha fatto tutti questi doni. Uno solo è il modo corretto per ogni elogio e su ogni argomento: percorrere dettagliatamente con il discorso qual è e di quali beni è artefice colui intorno al quale si trova a vertere il discorso. Così dunque è giusto che anche noi lodiamo Amore anzitutto per quale egli è, poi per i suoi doni. Dico dunque che fra tutti gli dèi beati, Amore, se è lecito dirlo e non suscita risentimento, è il più felice perché è il più bello e il migliore. è il più bello perché è tale: anzitutto è il più giovane tra gli dèi, o Fedro. E la prova più sicura a questa affermazione ce la porge egli stesso, fuggendo con la fuga la vecchiaia, che, come è chiaro, è assai veloce, e piomba su di noi più in fretta del necessario. Ed Amore è portato per natura a odiarla e a farlesi vicino neppure un poco. Ma se ne sta sempre e vive tra i giovani: come l'antico detto ben recita che il simile sta sempre accanto al simile. Ed io, pure concordando con Fedro in molti altri punti, su questo non concordo, che Eros sia più antico di Crono e Giapeto,(30) ma sostengo che egli è il più giovane degli dèi e resta sempre giovane e che quelle antiche contese tra gli dèi delle quali parlano Esiodo e Parmenide (31) avvennero ad opera della Necessità e non di Amore, se essi raccontavano il vero. Non sarebbero avvenute infatti evirazioni e incatenamenti e molti altri episodi di violenza se Amore si fosse trovato in mezzo a loro, ma amicizia e pace, come ora, da quando sugli dèi signoreggia Amore. Egli dunque è giovane e soave: è privo comunque di un poeta come era Omero in grado di esaltare la soavità del dio. Omero infatti afferma che Ate è una divinità e che è soave - i suoi piedi sono assolutamente delicati -, dicendo: "di lei sono delicati i piedi, non sul suolo infatti incede, ma sopra le teste degli uomini avanza".(32) E mi pare che abbia dimostrato la sua delicatezza con una bella prova, sostenendo che volge i suoi passi non sul duro, ma sul molle. Della stessa testimonianza ci avvarremo anche noi per Amore per sostenere che è delicato, in quanto non incede sulla terra né sulle teste che non sono affatto molli, ma su tutte le cose più tenere, fra quante ne esistono, muove i suoi passi e ha la propria dimora. Egli elegge la propria sede nel carattere e nell'anima degli dèi e degli uomini, ma non in tutte le anime alla rinfusa, ma se si imbatte in un'anima dal temperamento duro, l'abbandona, se invece dolce, ivi fissa la sua sede.(33) E trovandosi sempre a contatto e con i piedi e in ogni altra forma con tutte le cose più molli fra le più molli, ne segue necessariamente che egli sia il dio più soave. è il più giovane dunque e il più soave, e oltre a ciò è come flessuoso nell'aspetto. Non sarebbe infatti in grado di abbracciarsi ovunque, né dì entrare in ogni anima di nascosto e poi uscirne se fosse inflessibile.

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