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  • Ubuntu Gnome 13.04

    Ubuntu Gnome 13.04

    Martedì, 13 Agosto 2013 16:47

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  • 25 aprile e resistenza

    25 aprile e resistenza

    Giovedì, 25 Aprile 2013 18:41

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  • Il posto che spetta ad ognuno

    Giovedì, 17 Gennaio 2013 20:26

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    Martedì, 01 Ottobre 2013 09:41

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  • All'assalto della Costituzione

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    Mercoledì, 24 Luglio 2013 21:20

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  • L'ancora di salvataggio

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    Lunedì, 02 Settembre 2013 15:42

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    L'incubo continua

    Domenica, 21 Aprile 2013 10:26

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  • Volemose bene, facendo la guerra.

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    Domenica, 03 Febbraio 2013 18:53

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  • UE o non UE questo è il problema!

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    Giovedì, 24 Gennaio 2013 19:35

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  • Selene

    Selene "Dov'eri?", videoclip

    Venerdì, 08 Novembre 2013 12:11

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Platone - Protagora

«Ma anch'io penso», dissi, «o Protagora, che Simonide intendesse dire questo, e che anche il nostro Prodico losappia, ma che stia scherzando e voglia metterti alla prova, per vedere se sarai capace di sostenere il tuo ragionamento.

Del fatto, poi, che Simonide, con "difficile", non intendesse dire "cattivo", ne è prova evidente il verso a questo successivo: un dio solamente potrebbe avere questo privilegio. Se egli intendesse dire questo, e cioè che è un male essere buono, di certo poi non verrebbe a dire che solo il dio ha questa prerogativa e non attribuirebbe solo al dio questo privilegio: se così fosse, Prodico direbbe che Simonide è un insolente e per nulla un cittadino di Ceo. Ma voglio dirti qual è la mia interpretazione del pensiero di Simonide in questo carme, se vuoi mettere alla prova la mia competenza in fatto di poesia, come tu la chiami. Ma, se vuoi, sarò io ad ascoltare te».

Protagora allora, uditomi dire ciò, disse: «Se vuoi, Socrate!». Prodico e Ippia, invece, mi pregarono con insistenza, e così gli altri.

«Allora», dissi, «cercherò di esporvi la mia interpretazione di questo carme. L'amore per la sapienza è antichissimo e fra i Greci fu coltivato, più che altrove, a Creta e a Sparta, e là i sapienti sono più numerosi che in qualsiasi altro posto della terra.

Ma essi lo negano e fingono di essere ignoranti, perché non si scopra che sono superiori fra gli Elleni grazie alla sapienza, come quei sofisti di cui parlava Protagora, e per dare a credere, invece, di essere superiori in guerra e in coraggio, credendo che, se si venisse a conoscere la cosa che li rende superiori, ossia la sapienza, tutti si metterebbero a coltivarla. Ora, invece, tenendo questa ben nascosta, hanno ingannato quelli che nelle altre città si atteggiano a Spartani e che, per imitarli, si spaccano le orecchie e si fanno intorno ai pugni cinghie di cuoio, sono fanatici di ginnastica e indossano mantelli corti, convinti che siano queste le fonti della superiorità degli Spartani sul resto dei Greci. Ma gli Spartani, quando hanno voglia di frequentare liberamente i loro sofisti e sono ormai stanchi di farlo di nascosto, bandiscono dalla città questi stranieri che si atteggiano a Spartani e qualunque altro straniero che soggiorni nella loro città, e s'incontrano coi sofisti all'insaputa degli stranieri, e non permettono che nessuno dei loro giovani esca per recarsi in altre città, cosa che neppure i Cretesi permettono, perché non disimparino quello che essi insegnano loro. E in questa città non solo gli uomini sono orgogliosi della loro educazione spirituale, ma anche le donne. E potreste avere la conferma che queste cose sono vere e che gli Spartani hanno avuto la migliore educazione all'amore per la sapienza e all'arte dei discorsi, facendo questa considerazione: se uno volesse intrattenersi a discutere col più inetto degli Spartani, troverà che costui nella maggior parte dei ragionamenti apparirebbe uno sciocco, ma poi, dove questo cade a proposito nel corso del ragionamento, come un abile tiratore scaglierebbe un motto degno di considerazione breve e conciso, in modo che l'interlocutore non farebbe miglior figura di quella che farebbe un bambino. Ci sono alcuni, fra i contemporanei e fra gli antichi, che hanno capito proprio questo, cioè che imitare gli Spartani consiste molto più nell'amare la sapienza che nell'amare la ginnastica, ben sapendo che l'essere capaci di pronunciare motti del genere è caratteristica dell'uomo che ha avuto una perfetta educazione spirituale. Tra questi vi furono Talete di Mileto, (73) Pittaco di Mitilene, (74) Biante di Priene, (75) il nostro Solone, (76) Cleobulo di Lindo, (77) Misone di Chene, (78) e settimo tra questi si contava Chilone di Sparta.(79) Tutti costoro furono fautori, amanti e discepoli dell'educazione spirituale spartana; e che la loro sapienza fosse di questa specie lo si può capire da quei motti brevi e memorabili proferiti da ciascuno.

Costoro, poi, ritrovatisi insieme, li offrirono come primizie di sapienza ad Apollo, nel tempio di Delfi, mettendo per iscritto le sentenze che sono sulla bocca di tutti: "Conosci te stesso" e "Nulla di troppo". Ma perché dico queste cose? Per far vedere che proprio in questo consisteva il metodo della filosofia degli antichi, vale a dire in una sorta di concisione spartana. E, in particolare, di Pittaco era noto il motto lodato dai sapienti: "Difficile è esser buono".

Simonide, dunque, ambizioso com'era di farsi onore nell'ambito della sapienza, capì che, se avesse atterrato questa massima, come si atterra un atleta famoso, e l'avesse superata, si sarebbe fatto un nome fra i contemporanei. Contro questa massima, dunque, e con questo scopo, con l'intento cioè di servirsene per abbatterla, compose, a mio avviso, l'intero carme. Esaminiamolo, dunque, tutti insieme, per verificare se quello che dico è vero. Già l'inizio del carme apparirebbe strano, se, volendo dire che è difficile diventare uomo buono, vi inserisse poi quel "bensì ". Questo "bensì ", infatti, apparirebbe inserito senza ragione, a meno che non si supponga che Simonide parli contestando la massima di Pittaco: mentre Pittaco afferma che è difficile essere buono, per contraddirlo lui dice che non lo è, "bensì , piuttosto, il difficile è diventare uomo buono, o Pittaco, veramente". E non intende "veramente buono": non è su questo concetto che egli parla di verità, come se ci fossero alcuni veramente buoni, e altri buoni, ma non veramente, perché questo sarebbe sciocco e indegno di Simonide. Bisogna invece, nel carme, trasporre quel "veramente", premettendogli, in un certo senso, la massima di Pittaco, come se immaginassimo che Pittaco in persona dicesse la sua e Simonide gli rispondesse, l'uno dicendo: "O uomini, è difficile essere buono", e l'altro rispondendo: "O Pittaco, non è vero quello che dici: non l'essere buono, bensì il diventare buono, di mani, di piedi e di cuore tetragono, costruito senza pecca, è veramente difficile". In questo modo, il "bensì " appare inserito a proposito, e il "veramente" va correttamente posto alla fine del verso.

E tutto quel che segue testimonia a favore di questa interpretazione, provando cioè che questo è il senso di ciò che si dice nel carme. Ed è possibile, anche su ciascuna affermazione del carme, provare ampiamente che esso è ben fatto: è, infatti, molto elegante ed accurato. Ma sarebbe troppo lungo analizzarlo in questo modo. Esaminiamo invece il suo impianto generale e il suo intento, che, nel corso dell'intero carme, è soprattutto quello di confutare il detto di Pittaco.

Dice infatti, procedendo di pochi versi, per dire in forma di prosa quello che lui dice, che diventare uomo buono è veramente difficile, ma che è tuttavia possibile, almeno per qualche tempo; ma, una volta divenuto tale, rimanere in questo stato e essere uomo buono, come tu dici, o Pittaco, è impossibile e non umano, ma un dio soltanto potrebbe avere questo privilegio: non può non essere cattivo l'uomo, che irrimediabile sventura abbia abbattuto.

Ebbene, chi è colui che viene abbattuto da irrimediabile sventura, al comando di una nave? è chiaro che non si tratta del profano, perché il profano è sempre abbattuto. Infatti, come non si può gettare a terra chi è già steso a terra, ma si può, prima o poi, gettare a terra chi invece è in piedi, in modo da stenderlo a terra, ma non lo si può fare, appunto, a chi è già steso a terra, così anche un'irrimediabile sventura può, una volta o l'altra, abbattere chi sia ricco di risorse, ma non chi sia, da sempre, povero di risorse.

E una violenta tempesta, abbattendosi sul nocchiero, può far sì che egli si trovi a corto di risorse, e una cattiva stagione, colpendo il contadino, può metterlo in condizione di essere povero di risorse, e lo stesso accade per il medico.

All'uomo buono, infatti, è possibile diventare cattivo, com'è testimoniato anche da un altro poeta, che dice: "del resto, l'uomo perbene talora è cattivo e talora è buono". Al cattivo, invece, non è possibile diventare cattivo: è necessario che lo sia sempre. Sicché l'uomo ricco di risorse, che è sapiente e che è buono, quando venga travolto da una irrimediabile sventura, non può non essere cattivo. Tu, Pittaco, affermi che è difficile essere buono: ma è il diventare buono che è difficile, e tuttavia possibile, mentre essere buono è impossibile: "quando ha buona sorte ogni uomo è buono; è invece cattivo quando ha cattiva sorte". Ma cosa porta, allora, al successo nelle lettere, e che cosa rende l'uomo abile nelle lettere? è chiaro: la conoscenza di esse. E che cosa porta un bravo medico ad avere successo? è chiaro che si tratta della conoscenza di come vadano curati i malati. è invece cattivo quando ha cattiva sorte. E chi può diventare cattivo medico?

Chiaramente chi, come prima condizione, sia medico; poi bisogna che sia un buon medico, perché costui potrebbe diventare anche cattivo. Ma noi, che di medicina siamo profani, non potremmo mai, per quanto cattiva sia con noi la sorte, diventare medici, né costruttori, né nulla di simile. E chi non può diventare medico, per quanto sfortunato sia, è chiaro che non può diventare neppure cattivo medico. Così anche l'uomo buono può diventare un giorno o l'altro, anche cattivo, per effetto del tempo, della fatica, di una malattia o di qualche altra circostanza.

Infatti, in questo solamente consiste l'avere cattiva sorte: nell'essere privato di conoscenza. L'uomo cattivo, quindi, non potrebbe mai diventare cattivo, perché lo è sempre; ma, se si vuole che diventi cattivo, bisogna prima che diventi buono. Sicché anche questo punto del carme mira a dimostrare che non è possibile essere uomo buono, mantenendosi tale, che è invece possibile diventare buono, e da buono diventare cattivo, e che sono migliori e buoni più a lungo coloro che gli dèi amano.

Tutte queste cose sono affermate contro Pittaco, e il seguito del carme lo fa vedere ancora meglio. Dice infatti: "Perciò mai io, cercando quel che è impossibile, getterò via, vana, la mia parte di vita correndo dietro a una speranza inutile, di trovare un uomo senza macchia tra quanti mangiamo il frutto dell'ampia terra, ma se dovessi trovarlo ve ne informerò". E dice - tanta è la forza con cui attacca la massima di Pittaco! -: "io lodo e amo chiunque volontariamente non compia nulla di male; ma contro la necessità neppure gli dèi combattono". Anche quest'affermazione mira allo stesso scopo.

Simonide, infatti, non era così sprovveduto da dire che egli lodava chiunque non facesse di sua volontà nulla di male, come se esistessero alcuni che fanno il male volontariamente. La mia opinione è, infatti, all'incirca questa: che nessuno dei sapienti ritiene che qualcuno volontariamente sbagli e commetta azioni turpi e cattive, ma essi ben sanno che tutti coloro che commettono azioni turpi e cattive, le commettono a dispetto della propria volontà; e, di certo, anche Simonide non dice di lodare chi non compia il male di sua volontà, ma dice questo "volontariamente" riferendosi a se stesso. Riteneva, infatti, che un uomo buono e onesto spesso costringe se stesso a diventare amico di qualcuno e a lodarlo, come spesso accade a qualcuno di fare verso una madre, un padre, una patria ostili, o in qualche altro caso del genere.

Ora, i malvagi, quando capita loro qualcosa del genere, guardano a questo come se ne fossero contenti e con rimproveri mettono in evidenza e sotto accusa la cattiveria dei genitori o della patria, perché la gente non possa poi accusarli se non si curano di loro né biasimarli del fatto di non prendersene cura, sicché li rimproverano ancora di più e aggiungono rancori volontari a quelli che necessariamente esistono. I buoni, invece, si costringono a far finta di niente e a lodarli, e anche se sono in collera coi genitori o con la patria per i torti ingiustamente ricevuti, s'impongono calma e si riconciliano con loro, sforzandosi di amarli e di lodarli. Anche Simonide, credo, spesso ritenne di dover lodare ed esaltare un tiranno o qualche altro individuo del genere non di sua volontà, ma costringendosi a farlo. E questo lo dice anche a Pittaco "Io, Pittaco, non ti biasimo per questo, perché trovo soddisfazione nel biasimare, poiché, quanto a me, mi basta chi non sia cattivo né troppo meschino, che conosca la giustizia utile alla città e sia uomo sano, e non lo biasimerò, perché non sono portato al biasimo, ché infinita è la progenie degli stolti; sicché, se uno prova piacere a biasimare, avrebbe di che saziarsi biasimando costoro". Belle sono tutte le cose che non hanno bruttura in sé mescolata.

E questo non lo dice come se dicesse che sono bianche tutte le cose alle quali non è mescolato il nero, perché una tale affermazione sarebbe ridicola sotto vari aspetti, ma lo dice intendendo che egli accetta anche le vie di mezzo, al punto di non biasimarle. "E non cerco", dice, "un uomo senza macchia tra quanti mangiamo il frutto dell'ampia terra, ma se dovessi trovarlo, ve ne informerò; sicché non loderò nessuno per questa impeccabilità, ma mi basta che uno sia una via di mezzo e non commetta nulla di male, visto che io amo e lodo tutti", e qui si serve della lingua degli abitanti di Mitilene, come se si rivolgesse a Pittaco quando dice: "amo e lodo chiunque volontariamente" (e qui, sul "volontariamente", bisogna fare una pausa) "non compia nulla di male, ma ce ne sono anche alcuni che io lodo e amo a dispetto della mia volontà. Quanto a te, Pittaco, anche se tu avessi detto cose solo a metà giuste e vere, non ti avrei mai rimproverato. Ma visto che ora ti pare di dire cose vere, pur ingannandoti in pieno e sulle questioni più importanti, per questo io ti biasimo". Questo, secondo me, o Prodico e Protagora», dissi, «è quello che Simonide aveva in mente nel comporre questo carme».

E Ippia disse: «Mi sembra, o Socrate, che anche tu abbia dato una buona interpretazione del carme. Anch'io, però, ho su di esso un'analisi ben fatta, che, se volete, vi esporrò».

E Alcibiade disse: «Certo, Ippia! Un'altra volta, però! Ora, invece, è giusto, come Protagora e Socrate avevano di comune accordo stabilito di fare, che sia Protagora a interrogare, se ancora lo vuole, e Socrate risponda, e se, invece, vuole essere lui a rispondere a Socrate, che sia l'altro a interrogarlo».

Ed io dissi: «Mi rimetto a Protagora, che sia lui a scegliere ciò che più gli garba. Ma, se vuole, lasciamo stare carmi e poesie.

Più volentieri, invece, o Protagora, cercherei di giungere a una conclusione circa le questioni su cui ti interrogai all'inizio, esaminandole con te. Ho l'impressione, infatti, che le disquisizioni sulla poesia siano molto simili ai banchetti di gente volgare e bassa.

Costoro, infatti, per la loro incapacità di fare conversazione, durante il banchetto, con risorse proprie e di comunicare per mezzo della propria voce e dei propri discorsi, per effetto della loro mancata educazione, fanno rincarare le suonatrici di flauto, pagando a caro prezzo una voce estranea, quella dei flauti, e attraverso la voce dei flauti s'intrattengono fra di loro. Dove ci sono, invece, commensali virtuosi e perbene, ed educati nello spirito, non potresti vedere né suonatrici di flauto, né danzatrici né citaredi, ma costoro bastano a se stessi per conversare, senza queste frivolezze e senza questi trastulli, con la propria voce, parlando e ascoltando ciascuno al suo turno, con ordine, anche quando bevano molto vino. Così , anche queste nostre riunioni, se davvero accolgono uomini quali la maggior parte di noi afferma di essere, non hanno alcun bisogno di una voce estranea né della voce dei poeti, a cui non si possono fare domande sulle cose che dicono. E i più, quando la discussione cade su un punto che non sono in grado di ribattere, essi, citando a testimoni i poeti nel corso del ragionamento, danno, del pensiero del poeta, chi un'interpretazione, chi un'altra. Ma gli uomini per bene lasciano stare gli intrattenimenti di questo tipo, e conversano fra di loro con risorse proprie, mettendosi l'un l'altro alla prova nei loro discorsi. Sono costoro, a parer mio, che io e te dobbiamo piuttosto imitare, e bisogna che, mettendo da parte i poeti, discutiamo tra noi coi nostri ragionamenti, mettendo alla prova la verità e noi stessi. E se tu vuoi ancora interrogarmi, sono pronto a risponderti, oppure, se vuoi, concedimi di dare una conclusione a quegli argomenti che abbiamo smesso di analizzare nel bel mezzo».

Al mio dire queste e altre cose di questo genere, Protagora non dava alcun chiaro segno da cui si potesse capire quale delle due cose avrebbe fatto. Alcibiade, allora, rivolgendosi a Callia, disse: «Callia, ti pare anche adesso che Protagora si comporti bene, non volendo dichiarare se è disposto oppure no a rendere conto delle proprie affermazioni? A me non pare! Ma si metta a discutere, o dichiari di non voler discutere, in modo che anche noi possiamo saperlo e Socrate possa discutere con qualcun altro, o chiunque ne abbia voglia con altri».

E Protagora, vergognandosi, almeno così parve a me, a queste parole di Alcibiade e alle preghiere di Callia e di quasi tutti gli altri presenti, malvolentieri si decise a discutere e mi chiese di interrogarlo dichiarandosi disposto a discutere.

Ed io, allora, dissi: «O Protagora, non pensare che io discuta con te con altro scopo che non sia quello di vedere chiaro nelle cose su cui anch'io mi trovo, ogni volta, in difficoltà. Ritengo, infatti, che Omero dica una gran verità in quel verso che recita: "quando due vanno insieme, uno vede prima dell'altro", (80) perché così noi tutti siamo, in un certo senso, più ben disposti ad ogni azione, discorso e pensiero. Uno solo, invece, per quanto pensi, (81) va subito a cercare qualcuno a cui possa mostrare il suo pensiero e con l'aiuto del quale possa consolidarlo, finché non lo trovi. Ed è per questo che anch'io discuto più volentieri con te che con chiunque altro, perché penso che tu abbia già esaminato nel migliore dei modi quelle altre questioni che sono il naturale campo di indagine dell'uomo per bene, e così la questione della virtù. Del resto, chi altri se non te? Tu, infatti, non solo pensi di essere un uomo per bene, come certi altri che sono sì , per quanto li riguarda, per bene, ma non sono capaci di rendere tali anche altri; tu, invece, sei personalmente uomo buono e sei capace di rendere buoni anche altri, e hai tanta fiducia in te stesso che, mentre gli altri tengono nascosta quest'arte, tu apertamente ti sei fatto annunciare, con tanto di banditore, a tutti i Greci, ti sei dato il nome di sofista, ti sei presentato come maestro di educazione e di virtù, e sei stato il primo a pretendere il diritto di ricevere un compenso per questo. Come si fa, dunque, a non chiamarti in aiuto quando si tratta di indagare su queste cose, a non interrogarti e a non coinvolgerti? Non c'è modo di evitarlo. Ebbene io, ora, a proposito delle domande che all'inizio ti feci su questo argomento, desidero che certune vengano da te richiamate alla memoria, cominciando dal principio, e che certe altre, invece, vengano analizzate da noi due insieme. E la domanda, se non erro, era questa: sapienza, temperanza, coraggio, giustizia e santità, essendo cinque diversi nomi, si riferiscono ad un'unica cosa, o a ciascuno di questi nomi corrisponde un'entità particolare e una cosa avente, ciascuna, una funzione che le è propria, senza che l'una sia uguale all'altra? Tu sostenevi che non si trattava di nomi riferiti ad un'unica cosa, ma che ciascuno di questi nomi corrispondeva a una cosa particolare, e che tutte queste erano parti della virtù, non come le parti dell'oro che sono simili l'una all'altra e al tutto di cui sono parti, ma come le parti del volto, che sono diverse l'una dall'altra e dal tutto di cui sono parti, ciascuna con una sua particolare funzione. Ebbene, dimmi se su queste cose la pensi ancora come allora; se, invece, la pensi in qualche altro modo, specifica in che modo, confidando che io non te ne farò un aggravio, se tu ora sosterrai qualche altra cosa: non sarei affatto stupito, infatti, se tu avessi fatto, allora, queste affermazioni solo per mettermi alla prova».

«Ma io, o Socrate», rispose, «ti dico che tutte queste sono parti della virtù, e che quattro di esse sono abbastanza simili fra loro, mentre il coraggio è affatto diverso da ciascuna di esse. E la prova che io dico il vero potrai averla da questo: troverai, infatti, molti uomini che sono sommamente ingiusti, empi, dissoluti e ignoranti e che sono, nondimeno, straordinariamente coraggiosi».

«Fermati qui», dissi. «Merita di essere analizzata questa tua affermazione. I coraggiosi tu li chiami audaci, o che altro?» «E intrepidi, anche», rispose, «a gettarsi in quelle imprese che i più temono di affrontare». «Su, dimmi, tu sostieni che la virtù è qualcosa di bello, e appunto nella convinzione che sia bella ti presenti come maestro di essa?»

«Bellissima davvero», rispose, «a meno che io non sia pazzo». «E credi», continuai, «che una parte di essa sia brutta e un'altra bella, o che sia tutta bella?» «Tutta bella, e in sommo grado». «Sai chi sono coloro che si tuffano nei pozzi con audacia?» «Sicuro! I palombari». «E lo fanno perché ne hanno conoscenza, o per qualche altro motivo?» «Perché ne hanno conoscenza». «E chi sono coloro che combattono da cavallo con audacia? Sono coloro che hanno pratica di cavalcare, o coloro che non ne hanno pratica alcuna?» «Quelli che hanno pratica di cavalcare».

«E chi sono coloro che combattono con audacia reggendo la pelta? Sono o non sono i peltasti?» (82) «I peltasti. E in tutti gli altri casi, se è questo che cerchi di sapere», rispose, «coloro che hanno conoscenza sono più audaci di coloro che non hanno conoscenza, ed essi stessi sono più audaci, dopo aver imparato, di quanto non fossero prima di imparare».

«E ne hai già visti», dissi, «di quelli che, pur non avendo conoscenza di alcuna di queste cose, sono tuttavia audaci nell'affrontare ciascuna di esse?» «Sì », rispose, «e fin troppo audaci!». «Questi audaci sono anche coraggiosi?» «Brutta cosa davvero», rispose, «sarebbe allora il coraggio, visto che costoro sono fuori di senno!». «Come definisci, allora», dissi, «i coraggiosi? Non definivi coraggiosi gli audaci?» «E così li definisco tuttora», rispose. «Ma costoro», dissi, «che sono audaci in questo modo, non danno l'impressione, forse, di non essere coraggiosi, bensì pazzi? E non si diceva prima che coloro che ne sanno di più sono anche i più audaci, e che essendo i più audaci sono anche i più coraggiosi? E, secondo questo ragionamento, la sapienza non si identifica forse col coraggio?» «Non ricordi bene, Socrate», disse, «quello che dicevo e le risposte che ti davo. Alla tua domanda se i coraggiosi sono audaci, ammisi che era così ; ma non mi è stato chiesto se anche gli audaci siano coraggiosi.

E se tu me l'avessi chiesto, ti avrei risposto che non tutti lo sono.

E, d'altra parte, non hai in alcun modo dimostrato che i coraggiosi non sono audaci, cosa che avevo ammesso, e che la mia affermazione non è giusta. Poi, tu dichiari che coloro che hanno conoscenza sono più audaci rispetto a se stessi, a com'erano cioè quando non avevano ancora conoscenza, e rispetto ad altri che non hanno conoscenza, e con questo giungi a credere che il coraggio e la sapienza sono la stessa cosa. Procedendo in questo modo, però, potresti anche arrivare a credere che forza e sapienza sono la stessa cosa. Infatti se, seguendo questo procedimento, mi domandassi, come prima cosa, se i forti sono potenti, ti risponderei di sì ; poi, se tu mi domandassi se coloro che sanno combattere sono più potenti di coloro che non sanno combattere, e se sono, rispetto a se stessi, più potenti, dopo aver imparato, di quanto non fossero prima di imparare, io ti risponderei di sì ; e, una volta che io abbia ammesso queste cose, ti sarebbe possibile, servendoti di queste stesse affermazioni come prove, sostenere che, per mia ammissione, la sapienza si identifica con la forza. Ma io, né qui né altrove, ammetto che i potenti sono forti, bensì ammetto che i forti sono potenti.

Non sono infatti la stessa cosa potenza e forza: l'una, vale a dire la potenza, deriva dalla conoscenza, e anche dalla pazzia e dall'avere un animo ardente, mentre l'altra, cioè la forza, deriva dalla natura e dall'avere un corpo ben nutrito.

Così , anche nel nostro caso, non sono la stessa cosa audacia e coraggio, sicché accade che i coraggiosi sono audaci, ma non tutti gli audaci sono coraggiosi. L'audacia, infatti, come la potenza, deriva agli uomini da un'arte, dall'avere un animo ardente e dalla pazzia, mentre il coraggio deriva dalla natura e dall'avere un'anima ben nutrita».

«Tu dici, Protagora», dissi, «che alcuni uomini vivono bene e altri male?». Disse di sì . «E ti pare forse che un uomo viva bene, se vive nella sofferenza e nel dolore?». Disse di no. «E che ne dici, se uno arriva alla fine della sua vita, dopo aver vissuto piacevolmente?

Non ti sembra che, in tal caso, abbia vissuto bene?» «Mi sembra di sì », disse. «E allora, vivere piacevolmente è un bene, mentre vivere spiacevolmente è un male». «Sì », rispose, «purché si viva provando piacere alle cose belle». «Che c'è, Protagora? Non chiamerai anche tu, come fa la maggior parte della gente, piacevoli certe cose che sono cattive, e spiacevoli certe cose che sono buone? Infatti, io dico: le cose, in quanto sono piacevoli, non sono forse, proprio in virtù di questo, buone, se non si considerano altri effetti che da esse potrebbero derivare? E, d'altra parte, le cose spiacevoli, allo stesso modo, non sono forse cattive, in quanto sono spiacevoli?» «Non so, Socrate», rispose, «se ti debbo dare una risposta tanto semplice quanto la domanda che tu poni, e dirti che le cose piacevoli sono tutte buone e quelle spiacevoli tutte cattive. Mi pare che sia più saggio rispondere considerando non solo la risposta da dare ora, ma tenendo conto anche di ciò che ho visto vivendo, e cioè che vi sono cose, fra quelle piacevoli, che non sono buone, e, d'altro canto, cose, fra quelle spiacevoli, che non sono cattive, e altre, invece, che lo sono; e, come terza affermazione, che vi sono cose che non sono né l'uno né l'altro, ossia né buone né cattive». «E non chiami piacevoli», dissi, «le cose che attingono al piacere o procurano piacere?» «Certo», disse.

«Ebbene, è proprio questo quello che intendo dire, quando ti chiedo se le cose, in quanto sono piacevoli, non siano buone: se il piacere non sia, in sé, un bene». «Come tu dici ogni volta, Socrate», disse, «esaminiamo la cosa; e, se il risultato dell'indagine ci sembrerà conforme al ragionamento, e piacere e bene risulteranno essere la stessa cosa, allora ci troveremo d'accordo ad ammetterlo, se no, continueremo ancora a sostenere tesi opposte».

«Preferisci», gli chiesi, «essere tu a guidare l'indagine, o vuoi che sia io a guidarla?» «è giusto», disse, «che sia tu a guidarla, visto che sei stato tu a cominciare il discorso».

«Ebbene», dissi, «non potremmo chiarire la cosa in questo modo? Per fare un esempio, se si volesse stabilire, dall'aspetto esterno di un uomo, il suo stato di salute o qualche altra cosa che abbia a che vedere col corpo, dopo avergli guardato il volto e le estremità delle mani, gli si direbbe: "Su, ora spogliati e mostrami anche il petto e la schiena, perché possa esaminarti meglio". Anch'io desidero fare qualcosa del genere nell'interesse della nostra indagine. Dopo aver visto che la tua opinione sul bene e sul piacere è quella che tu dici, ho bisogno di dirti appunto una cosa di questo genere. "Su, Protagora, scoprimi anche questa parte del tuo pensiero: che opinione hai della conoscenza? Hai anche su questa la stessa opinione che ha la maggior parte della gente, o un'opinione diversa? La maggior parte della gente, infatti, ha sulla conoscenza press'a poco quest'opinione: che essa non abbia forza, né autorità, né capacità di comando. E non pensano ad essa come a una cosa che abbia queste caratteristiche, ma credono invece che, benché la conoscenza sia spesso presente nell'uomo, non sia essa a comandarlo ma qualcos'altro: talora la rabbia, tal altra il piacere, tal altra ancora il dolore, qualche volta l'amore, spesso la paura; insomma, considerano la conoscenza una sorta di schiava tirata in giro da tutte le altre passioni. Ebbene, hai anche tu una siffatta opinione su di essa, o pensi che essa sia una cosa bella e capace di comandare l'uomo; che, se uno ha conoscenza del bene e del male, non possa essere sopraffatto da alcunché, in modo da fare cose diverse da quelle che tale conoscenza gli impone di fare; e che la conoscenza sia efficace aiuto per l'uomo?"».

«La penso anch'io, o Socrate», rispose, «come hai appena detto; ma, al tempo stesso, per me più che per chiunque altro, non sta bene sostenere che la sapienza e la conoscenza non sono, di tutte le cose umane, le più potenti». «Parli bene», dissi, «ed è vero quello che dici. Sai, dunque, che la maggior parte della gente non crede né a me né a te, ma sostiene che molti, pur avendo conoscenza di ciò che è meglio, non lo vogliono fare, anche se è in loro potere farlo, ma fanno cose diverse.

E tutti coloro ai quali domandai quale ne sia la ragione, mi hanno detto che gli uomini che così si comportano, lo fanno perché vinti dal piacere, dal dolore, o da qualcuna delle passioni di cui ho appena parlato».

«Io credo, o Socrate», disse, «che gli uomini facciano anche molte altre affermazioni errate».

«Su, allora, cerca insieme a me di convincere gli uomini e di insegnare loro che cosa sia questo che succede loro, e che essi chiamano essere vinti dai piaceri e non fare, a causa di questo, ciò che è meglio, pur avendone conoscenza. Forse, se noi dicessimo loro: "Quello che dite non è giusto, o uomini, ma vi ingannate", essi, allora, ci domanderebbero: «O Protagora e Socrate, se questa cosa che ci succede non è l'essere vinti dal piacere, di che si tratta, allora, e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!"».

«Ma che bisogno c'è, o Socrate, di mettersi a considerare l'opinione della maggior parte della gente, che dice, a caso, quello che le capita per la testa?» «Credo», risposi, «che questo in qualche modo ci servirà a scoprire che rapporto abbia il coraggio con le altre parti della virtù.

Se pensi che sia giusto restare fedele a quello che abbiamo appena stabilito, che cioè sia io a guidare l'indagine nel modo che, a mio giudizio, porti la massima chiarezza sulla questione, seguimi. Se invece non vuoi, e se questo ti sta a cuore, lascerò stare».

«Dici bene», rispose, «continua come hai cominciato!».

«Se, allora», dissi, «essi tornassero a chiederci: "Che cosa dite voi che sia questa cosa che noi definivamo l'essere vinti dai piaceri?", io darei loro questa risposta: "State a sentire! Io e Protagora cercheremo di spiegarvelo. Non dite forse che vi accade proprio questo, e non altro, in questi casi, quando cioè spesso, sopraffatti dai cibi, dalle bevande e dagli stimoli sessuali, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia le fate?» «Risponderebbero di sì ». «Se, allora, io e te facessimo loro quest'altra domanda: "In che senso definite queste cose cattive? Perché sul momento procurano quel dato piacere e ciascuna di esse è piacevole, o perché in un secondo tempo provocano malattie e portano povertà e molte altre cose del genere? Oppure, se anche dopo non portassero con sé nessuna di queste conseguenze, e il loro effetto fosse solo quello di procurare piacere, sarebbero ugualmente cattive, qualunque sia la ragione e il modo del piacere che procurano?". Dobbiamo pensare, Protagora, che darebbero una risposta diversa da questa: che tali cose non sono mali per la produzione di questo piacere momentaneo, ma per gli effetti che in un secondo tempo ne derivano, malattie e tutto il resto?» «Penso», rispose Protagora, «che la maggior parte della gente darebbe questa risposta».

«"E portando malattie, non portano dolori, e, portando povertà, non portano dolori?". Si direbbero d'accordo, penso».

Protagora ne convenne. «"Non sembra, dunque, anche a voi, o uomini, come io e Protagora sosteniamo, che queste cose siano cattive non per altra ragione che perché vanno a finire in dolori e privano di altri piaceri?". Si direbbero d'accordo?». Ne convenimmo entrambi.

«E se facessimo loro la domanda opposta: "O uomini, quando dite che esistono cose buone che sono dolorose, non vi riferite forse a cose che, come gli esercizi ginnici, il servizio militare e le cure praticate dai medici con cauterizzazioni, tagli, medicine e digiuni, sono buone, ma spiacevoli?". Direbbero di sì ?». Lo ammise. «"E chiamate queste cose buone forse perché sul momento procurano dolori estremi e sofferenze, o perché in un secondo tempo da esse derivano salute e benessere dei corpi, salvezza delle città, potere sugli altri e ricchezze?".

Risponderebbero che è così , penso». Lo ammise. «"E queste cose sono forse buone per altra ragione che perché vanno a finire in piaceri, e liberano e difendono dai dolori? O potete citare qualche altro effetto, che non siano piaceri e dolori, guardando al quale chiamate buone queste cose?". Risponderebbero di no, credo». «Pare anche a me», disse Protagora, «che risponderebbero di no». «"E voi inseguite il piacere nella convinzione che sia un bene, e fuggite il dolore nella convinzione che sia un male?"». Lo ammise. «"Allora voi ritenete che questo, il dolore, sia un male, e che il piacere sia un bene, visto che dite che talora persino il godere è un male, quando privi di piaceri maggiori di quelli che porta con sé, o procuri dolori maggiori dei piaceri che comporta? Diversamente, se chiamate male persino il godere in qualche altro senso o guardando a qualche altro suo effetto, dovreste dircelo: ma non potreste farlo!"» «Anche a me pare che non potrebbero»~ disse Protagora. «"E ancora, che altro accade a proposito del soffrire, se non la stessa cosa? Non chiamate talora bene persino il soffrire, quando liberi da dolori maggiori di quelli che comporta, o procuri piaceri maggiori di questi dolori? Altrimenti, se guardate a qualche altro suo effetto, diverso da quello che dico io, quando chiamate bene persino il soffrire, dovete dircelo: ma non potrete farlo!"». «Quello che dici è vero», disse Protagora.

«E ancora, se voi, o uomini», dissi, «mi faceste quest'altra domanda: "Ma perché mai parli così a lungo, e considerandone tutti questi aspetti, di questo argomento?", io risponderei "Perdonatemi! In primo luogo, non e facile chiarire che cosa sia mai questa cosa che voi definite l'essere vinti dai piaceri; e poi da questo dipendono tutte le dimostrazioni successive. Ma potete ancora ritrattare, e vedere se vi riesce di dare qualche altra definizione di bene che non sia il piacere, e di male che non sia il dispiacere. O vi basta vivere piacevolmente la vita senza dolori? Se questo vi basta, e non potete dare, di bene e di male, altra definizione che non sia ciò che va a finire in piaceri e in dolori, state a sentire ciò che segue. Io vi dico che, se le cose stanno così , è un ragionamento ridicolo, il vostro, quando affermate che l'uomo, pur avendo conoscenza del male come tale, tuttavia, spesso, lo compie, benché sia in suo potere non compierlo, perché mosso e sopraffatto dai piaceri. E inoltre dite che l'uomo, pur avendo conoscenza del bene, non vuole compierlo, per via del piacere del momento, perché da essi sopraffatto". Che queste affermazioni siano ridicole, risulterà chiaro, se non ci serviremo di più nomi contemporaneamente: piacere e dolore, bene e male; ma, visto che le cose in questione sono risultate essere due, dobbiamo riferirci ad esse pure con due soli nomi, prima con bene e male, poi con piacere e dolore.

Stabilito dunque di fare così , diciamo che l'uomo, pur conoscendo il male come tale, tuttavia lo compie. E qualora uno ci chieda: "Perché?", "Perché sopraffatto", risponderemo noi.

"E sopraffatto da che cosa?", costui allora ci chiederà. E noi non potremo più rispondere "dal piacere", perché la cosa, al posto di piacere, ha preso un altro nome, vale a dire quello di bene. E allora gli dovremo rispondere e dire: "Perché vinto...". "Vinto da che cosa?", chiederà. "Dal bene", dovremo dire, per Zeus! E allora, se ci capiterà, come interlocutore, uno sfacciato, costui se la riderà e dirà: "Che cosa ridicola state dicendo: voi affermate che uno compie il male, pur sapendo che è male, e senza che ci sia bisogno di farlo, perché sopraffatto dal bene! Lo affermate forse perché il bene, in voi, non è all'altezza di vincere il male, o perché ne è all'altezza?". Ovviamente dovremo rispondergli che questo accade perché il bene non ne è all'altezza! E infatti, se così non fosse, non avrebbe torto colui che noi diciamo essere sopraffatto dai piaceri! "E in che senso", forse ci chiederà, "i beni non sono all'altezza dei mali, o i mali dei beni? In che altro senso, se non quando gli uni siano più grandi degli altri e gli altri più piccoli, o gli uni più numerosi e gli altri inferiori di numero?". Non potremo dargli altra risposta che questa. "E allora è evidente", dirà, "che questa cosa che chiamate essere sopraffatti consiste nello scegliere mali più grandi invece di beni più piccoli". Così stanno le cose! Ebbene, cambiamo di nuovo i nomi, mettendo alle stesse cose i nomi di piacere e di dolore, e diciamo che l'uomo compie ciò che è doloroso (prima dicevamo "il male", ora invece diciamo pure "ciò che è doloroso"), pur avendone conoscenza come di cosa dolorosa, perché vinto dai piaceri, i quali, d'altro canto, è evidente che non sono all'altezza di vincere. E in che altro può consistere l'inferiorità del piacere rispetto al dolore, se non in un eccesso o in difetto dell'uno rispetto all'altro? E questo, poi, accade quando queste cose sono, le une rispetto alle altre, più grandi o più piccole, più numerose o meno numerose, superiori o inferiori.

E se uno dicesse: "Ma c'è gran differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il piacere e il dolore futuri!", gli risponderei: "Sta forse in qualcos'altro la differenza, che non sia piacere e dolore? La differenza, infatti, non può consistere in altro! Tu, piuttosto, come uno abile a pesare, messi insieme i piaceri da una parte e i dolori dall'altra, dopo aver posto sul piatto della bilancia anche la vicinanza e la lontananza, prova a dire quale piatto è più pesante.

Se peserai piaceri con piaceri, dovrai sempre scegliere quelli più grandi e più numerosi; se peserai, invece, dolori con dolori, dovrai sempre scegliere quelli meno numerosi e più piccoli; se, poi, peserai piaceri con dolori, qualora i dolori siano superati dai piaceri, sia che i dolori vicini siano superati dai piaceri lontani, sia che i dolori lontani siano superati dai piaceri vicini, l'azione in cui vi sia questa condizione di superiorità del piacere sul dolore va allora compiuta. Quando, invece, siano i piaceri ad essere superati dai dolori, quelle azioni non le dovrai compiere. O le cose stanno in altro modo, uomini?", domanderei. So bene che non potrebbero dire altrimenti!».

Anch'egli fu d'accordo.

«"E visto che le cose stanno così ", dirò, "rispondete a questa mia domanda: le medesime grandezze appaiono alla vista maggiori da vicino, e minori da lontano. Non è così ?"» «Risponderanno di sì ».

«"E non accade lo stesso con le cose grosse e con le cose numerose?

E voci uguali non sembrano più forti da vicino, e più deboli da lontano?"» «Direbbero di sì ». «"Se, dunque, la nostra felicità dipendesse dal fare e scegliere le cose di grandi dimensioni e dal fuggire ed evitare le cose di piccole dimensioni, in che consisterebbe allora la salvezza della nostra vita? Nell'arte di misurare o nella forza dell'apparenza? O quest'ultima non ci trarrebbe forse in inganno e non ci farebbe più volte mutare le stesse cose e pentirci, sia nel compiere sia nello scegliere le cose grandi e le cose piccole, mentre l'arte dì misurare renderebbe impotente quest'illusione, e, mostrando la verità, metterebbe l'anima in pace, saldamente fedele al vero, e salverebbe la nostra vita?". Ebbene, non ammetterebbero gli uomini che, in questo senso, è l'arte di misurare che ci salva, o direbbero che si tratta di un'altra arte?» «Ammetterebbero che si tratta dell'arte di misurare», riconobbe.

«"E che accadrebbe, se la salvezza della nostra vita dipendesse dalla scelta del dispari e del pari, quando, per scegliere correttamente, dovessimo scegliere il più e quando il meno, sia valutando una data cosa rispetto a se stessa, sia valutando le cose una rispetto all'altra, che sia vicina e che sia lontana? Che cosa salverebbe, allora, la nostra vita? Non si tratterebbe forse di una data conoscenza? E non si tratterebbe di una conoscenza della misurazione, visto che si tratta di un'arte dell'eccesso e del difetto? E visto che si tratta dell'arte del dispari e del pari, potrebbe forse essere arte diversa dall'aritmetica?". Si direbbero d'accordo con noi, costoro, o no?». Anche Protagora fu dell'opinione che sarebbero stati d'accordo. «"E sia, gente! Poiché la salvezza della nostra vita è risultata dipendere dalla corretta scelta del piacere e del dolore, della quantità maggiore e minore, del più grande e del più piccolo, del più lontano e del più vicino, non vi pare innanzi tutto che non può non essere un'abilità nel misurare, visto che si tratta di una ricerca dell'eccesso, del difetto e dell'uguaglianza di una cosa rispetto ad un altra?"». «Per forza». «"E visto che si tratta di un'abilità nel misurare, deve per forza trattarsi di un'arte e di una conoscenza"». «Si diranno d'accordo». «"Di quale arte e di quale conoscenza si tratti, vedremo un'altra volta. Ma che si tratti di una conoscenza è quanto basta per la dimostrazione che io e Protagora dobbiamo darvi circa le cose che ci domandaste.

Ci avete posto questa domanda, se ricordate, quando noi due sostenemmo di comune accordo che non esiste nulla di più potente della conoscenza, e che essa sempre prevale, ovunque sia presente, sia sul piacere sia su tutte le altre passioni. Ebbene, voi affermaste che spesso il piacere prevale anche sull'uomo che ha conoscenza, e, dato che non vi demmo ragione, dopo questo ci chiedeste: "Protagora e Socrate, se questo che ci succede non è l'essere vinti dal piacere, di che si tratta, allora, e cosa dite che sia?

Ditecelo!". Se allora vi avessimo subito risposto: "Ignoranza", ci avreste riso in faccia. Ora, invece, se rideste di noi, ridereste anche di voi stessi, poiché anche voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta dei piaceri e dei dolori (cioè dei beni e dei mali), sbaglia per difetto di conoscenza; e non solo di conoscenza in generale, ma di quella conoscenza che, ancor prima, avete riconosciuto come conoscenza della misurazione. E l'azione errata commessa per difetto di conoscenza, sapete anche voi che si commette per ignoranza. Sicché, in questo consiste l'essere succubi del piacere: nella somma ignoranza, male di cui il nostro Protagora dice di essere medico, e così anche Prodico e Ippia. Ma voi, convinti che si tratti di altro dall'ignoranza, non andate e non mandate i vostri figli da quelli che insegnano queste cose, dai sofisti qui presenti, nella convinzione che esse non si possano insegnare: poiché vi preme il denaro e non lo volete spendere con costoro, riuscite male e nella vita privata e in quella pubblica".

Questa è la risposta che noi daremmo alla gente. Quanto a voi, Prodico e Ippia, perché anche voi dovete prendere parte alla discussione, insieme a Protagora vi domando se vi pare che le cose che dico siano vere o false». Tutti furono del parere che ciò che si era detto fosse fin troppo vero. «Allora», dissi, «ammettete che il piacere sia bene, e il dolore sia male. E scongiuro il nostro Prodico di risparmiarci la sua distinzione dei termini: sia che tu dica piacere, sia che tu dica divertimento, sia che tu dica godimento, sia che tu lo chiami prendendo il nome da dove ti pare e come ti fa piacere chiamarlo, caro Prodico, rispondimi sulla cosa che mi preme sapere». Ridendo, Prodico si disse d'accordo, e gli altri con lui. «Ebbene, gente», dissi, «che ne dite di questo? Tutte le azioni che mirano a questo scopo, ossia a vivere senza dolore e piacevolmente, non sono forse belle? E l'azione bella non è forse anche buona e utile?».

Ne convennero. «E allora», dissi, «se il piacere si identifica col bene, nessuno che sa o crede di sapere che altre cose sono migliori di quelle che fa, e che è in suo potere farle, continua tuttavia a fare queste, pur potendo farne di migliori. E l'essere succubi di se stessi non è altro che ignoranza, mentre il sapersi dominare non è altro che sapienza». Tutti ne convennero. «Ebbene, non dite forse che l'ignoranza consiste proprio in una cosa del genere, nell'avere una falsa opinione e nell'ingannarsi sulle cose di grande valore?». Anche su questo furono tutti d'accordo. «E non è forse vero», dissi, «che nessuno di sua volontà mira al male o a ciò che considera male, e che non è, a quanto pare, nella natura umana tendere volontariamente a ciò che si considera male invece che al bene; e che, quando si fosse costretti a scegliere fra due mali, nessuno sceglierà il male maggiore, se gli sarà possibile scegliere il minore?». Tutto ciò incontrò unanime consenso. «Ora», dissi, «c'è qualcosa che chiamate timore e paura? è forse la stessa cosa che intendo io? Parlo con te, Prodico! Intendo una sorta di aspettazione del male, che la chiamiate paura o la chiamiate timore». A Protagora e a Ippia parve che timore e paura consistessero proprio in questo, mentre Prodico era del parere che in questo consistesse il timore, ma non la paura. «Non ha nessuna importanza», dissi, «Prodico. Ciò che conta, piuttosto, è questo: se sono vere le precedenti affermazioni, ci sarà forse qualcuno che di sua volontà muoverà verso ciò di cui ha timore, pur essendogli possibile evitarlo? Non è forse impossibile, tenendo conto di quello che abbiamo prima convenuto? Si è convenuto, infatti, che le cose di cui uno ha timore sono da lui considerate mali; e che nessuno di sua volontà prende di mira o sceglie le cose che considera mali». Anche su questo furono tutti d'accordo. «Gettate queste fondamenta, o Prodico e Ippia», dissi, «il nostro Protagora difenda, di fronte a noi, le sue precedenti risposte, provando che sono corrette. Non le risposte che diede proprio all'inizio della discussione: allora, infatti, sostenne che, essendo cinque le parti della virtù, nessuna di esse è uguale all'altra, e che ciascuna ha una sua particolare funzione. Ma non è questa la risposta a cui mi riferisco, bensì alla sua affermazione successiva. Poco dopo, infatti, dichiarò che quattro di queste parti sono abbastanza simili tra loro, ma che una, il coraggio, è molto diversa dalle altre, e che io avrei potuto capirlo da questa prova: "Troverai, Socrate, molti uomini che sono sommamente empi, ingiusti, dissoluti e ignoranti, eppure dotati di grande coraggio. E da questo capirai che il coraggio è molto diverso dalle altre parti della virtù".

E già allora, subito, rimasi molto stupito di quella risposta, ma ora che ho esaminato con voi la questione, ne sono ancora più stupito.

Gli chiesi, allora, se definisse i coraggiosi "audaci", e mi rispose: "E intrepidi, anche". Ricordi, Protagora, di avermi dato questa risposta?».

Lo ammise. «E dimmi», continuai, «verso che cosa tu dici che i coraggiosi sono intrepidi? Verso le stesse cose a cui lo sono i vili?». Disse di no.

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