Carcere, tra ipocrisia e umanità. - Carcere2

san vittore-1
Mi voltai e prestai ascolto alle parole della guida. Il carcere era stato costruito sul modello settecentesco del panopticon, un carcere a sei braccia con tre piani che si ricollegavano tutti nel luogo in cui mi trovavo. Era una struttura predisposta per accogliere circa 600 detenuti. Tuttavia le cose nella pratica andavano in un altro modo, anzi decisamente al contrario. Entrammo nel braccio numero tre, la guida ci voleva mostrare alcuni detenuti che nel carcere erano una rarità, persone che si comportavano bene e che in un modo o nell'altro avevano sbagliato al di fuori della struttura, nella vita vera ed erano lì per scontare la loro pena. Passando per i corridoio vedevo piccole stanze con altrettante piccole insegne con su iscritto ambulatorio, segreteria, biblioteca e molte altre cose.
Il braccio era a pezzi, letteralmente, pezzi di muro si stavano staccando, la pulizia non era ottimale, in più le scale grazie alle quali si poteva accedere sui tre diversi piani erano molto strette, piccole finestre con sbarre verdi arrugginite lasciavano passare qualche raggio di luce. Ero costretto a stare in fila indiana mentre salivo la scala per arrivare al terzo piano, una persona un po grossa avrebbe fatto fatica a stare lì, ero molto stretto il passaggio. Si notava che il carcere era dell'800, le porte troppo basse ed i corridoio troppo stretti.

Sovraffollamento


Arrivai al terzo piano e vidi che vi erano numerose persone fuori dalle celle che erano aperte. Il sovraintendente ci disse che ci trovavamo nella parte buona del carcere, quella dove ancora c'era speranza ed in effetti non aveva tutti i torti. I muri erano meno conciati mali, c'erano pochi poliziotti, ma l'ambiente non sembrava poi così male. Guardando dentro le celle di sfuggita vidi molti detenuti dormire si piccole brandine e letti a castello con coperte di quelle che si usano per le cuccette delle navi. Piccoli cucinini ed armadietti, alcuni stavano mangiando qualcosa mentre guardavano il tg in piccole tv tascabili, altri stavano pulendo la loro cella, altri ancora ci guardavano curiosi sorridendo salutandoci in italiano, altri chiaramente stranieri, nella loro lingua. Molti erano italiani, altri extracomunitari, si andava da persone del Nord Africa fino ai paesi balcanici. I tratti somatici ed il loro idioma mi aiutavano a capire da dove provenissero. Quello che sentii dentro di me guardando quelle persone non era repulsione, anzi mi sembravano persone normali, piuttosto sorridenti visto il luogo dove si trovavano. Credo che sorridessero più che altro perchè vedere una ventina di visi nuovi e giovani, in effetti da detenuto ed in quelle condizioni ti cambia un po la giornata, mentre per una persona libera sarebbero indifferenti. In quel momento mentre i miei occhi incontravano quelli di queste persone mi venne in mente una canzone di De Andrè intitolata "Cose che dimentico". Il testo parlava di una vita che sembrava enorme e credo proprio che per quei detenuti doveva essere così. Proseguendo la visita io ed i miei compagni arrivammo davanti ad una piccola porta metallica con una stretta finestrella di vetro rettangolare al centro. Entrammo tutti dentro in fila indiana, l'aula era molto piccola, ai lati vi erano delle librerie vecchie di legno giallo, una lavagna sporca di gesso bianco e delle sedie su cui ci sedemmo. Nella stanza ci stavano aspettando quattro persone, di cui tre erano detenuti. Erano giovani, tutti uomini, avevano un'età compresa tra i trent'anni ed i quaranta, mentre la donna era un'assistente sociale.

Ci salutarono, poi una volta comodi la donna si presentò e ci disse cosa si faceva in quella stanza. Era un ambiente dove si svolgeva aiuto finalizzato ai detenuti del braccio tre con problemi di tossicodipendenza, ma oltre a questo si lavorava molto sul carattere dei detenuti, scavando nel loro profondo, cercando di capire il perchè dei loro sbagli, le motivazioni, cosa aveva spinto a commettere un reato ed entrare in contatto con la droga. Ovviamente era solo un ambiente di passaggio, tanto è vero che tutti e tre i detenuti mentre parlavano, raccontavano che il loro fine era quello di essere trasferiti nel carcere di Bollate, rinomato e famoso in tutta Europa per i trattamenti rieducativi e risocializzativi per i detenuti. Certo in realtà loro avrebbero voluto uscire dal carcere, quale persone dopo aver visto cosa accade dentro un istituto penitenziario vorrebbe restarci? Probabilmente nessuno, a meno che non sia masochista. Guardando la stanza vidi appeso su di un muro un piccolo quadretto con una foto in bianco e nero raffigurante uno dei personaggi che a mio parere hanno dato e stanno ancora dando un gran contributo alla società italiana. Gherardo Colombo, magistrato conosciuto per via dell'inchiesta di "Mani Pulite" o "Tangentopoli" che, nella foto abbracciava sorridente alcuni detenuti. Una foto che sarebbe passata inosservata ai molti presenti nella stanza se non fosse che proprio un detenuto ne parlò, anche con un pizzico di orgoglio, forse per aver conosciuto una persona di tal fatta o forse perchè si rese conto che il lavoro svolto da quel magistrato era realmente utile sia a lui che ai suoi compagni. Ancora mentre i detenuti parlavano con voce tremolante per l'emozione ed un poco sommessa mi fissai a guardare i loro occhi, simili a quelli di cani lasciati in autostrada legati a qualche pietra. Mi venne il magone nel pensare a quanto avessero sofferto ed a quanto stessero ancora soffrendo. Chissà quanti giorni mancheranno alla loro scarcerazione. Chissà se riusciranno ad arrivarci. Perchè purtroppo la verità è questa. Si sa quando si entra in carcere, ma ad oggi non si sa quando si esce.

Gherardo Colombo-il perdono responsabile

Alcuni, gli ergastolani in particolare, sanno bene che passeranno la loro vita dentro quel luogo, ma altri invece, quelli fragili, quelli che diventano fragili in quelle condizioni(e sono moltissimi), conoscono lo spettro della paura, dell'isolamento, e quello peggiore, dell'indifferenza. Mi sorpresi molto quando un detenuto, quello più estroverso fra i tre, giovane, che mi ricordava un mio compagno delle medie per via della stazza e del viso rispose ad una domanda postagli da una mia compagna di classe. Perchè non possono chiamarsi famiglia? Famiglia. Il sostantivo rievoca una zona sicura, un qualcosa di proprio, di intoccabile, in cui ci si sente sereni o per lo meno protetti dai disagi dell'esterno. Famiglia è casa. Ma allora come può essere casa in un carcere? L'assistente sociale, che amichevolmente i detenuti la chiamavano dottoressa disse che non poteva chiamare questo gruppo in cui operava famiglia, perchè altrimenti avrebbe ottenuto l'effetto opposto a quello si proponeva di fare. Questi detenuti hanno una loro famiglia all'esterno, chi più chi meno coesa e dunque creare una seconda famiglia all'interno del carcere sarebbe stato come sostituirla a quella vera. Dopo aver speso in maniera utile una decina di minuti ascoltando cosa avevano da dire questi detenuti, tra cui il fatto che avevano preso la licenza di scuola media inferiore proprio in carcere uscimmo dalla stanza. Mentre ci alzavamo un detenuto chiese al nostro "Cicerone", ovvero il brigadiere se poteva far vedere la sua cella. Il brigadiere acconsentii e dunque ci spostammo di una decina di metri nell'ultima cella del piano. Quando entrai mi accorsi immediatamente di come fosse assurda la situazione di vita di un carcerato. Una persona non potrebbe mai vivere in un luogo così stretto ed invece nella realtà in pochissimi metri quadri vi vivano in un'unica cella ben tre detenuti. Dimenticatevi le celle dei film americani, questa era più simile ad una cameretta di un ragazzo, qui e là alcune riviste di auto, alcune immagini ritagliate o strappate attaccate alla buona sui muri bianchi, dei mobili di legno marcio che nemmeno nelle case popolari potrebbero stare, un pavimento pulito(evidentemente i nostri detenuti nel loro piccolo era attenti alla pulizia a differenza di altri), un piccolo cucinino con a fianco un lavabo colmo di stoviglie da lavare(dovevano aver mangiato da poco), un letto a castello, con delle coperte di lana grigia, un minuscolo bagno con un water e proprio accanto una doccia ed un lavandino con uno specchio. Una sola finestra per tutta la cella.

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