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Platone - Alcibiade o maggiore

 

ALCIBIADE: Anche la mia in effetti, o Socrate, fino a Eurisace e quella di Eurisace fino a Zeus.(37)

SOCRATE: E in effetti pure la mia, o nobile Alcibiade, fino a Dedalo e Dedalo fino a Efesto figlio di Zeus.(38) Però le stirpi di costoro, a cominciare da loro, sono di re dopo re fino a Zeus, gli uni re di Argo e di Sparta, gli altri di Persia da sempre, spesso perfino d'Asia, come anche oggi; noi invece siamo privati cittadini, noi stessi e i nostri padri. E se tu dovessi esibire i tuoi antenati e la patria di Eurisace, Salamina, o la patria di Aiace, ancora prima, Egina, ad Artaserse figlio di Serse, a quanto ridicolo ti esporresti? Bada invece che non risultiamo inferiori a quegli uomini sia per vanto di stirpe sia per altri aspetti del loro sistema di educazione.(39) O forse non hai osservato quanto grandi siano le prerogative dei re dei Lacedemonii, le cui donne sono per decisione statale sottoposte alla custodia degli efori, onde evitare, per quel che è possibile, che il re possa nascere per un sotterfugio da un altro che non sia un Eraclide?(40) Il re dei Persiani poi è in una condizione di tale superiorità che nessuno si fa sfiorare dal sospetto che un re possa essere nato da un altro che non sia lui stesso: perciò la moglie del re non viene sorvegliata da altro se non da un'atmosfera di paura.

Quando nasce il primogenito, al quale spetta il trono, in un primo momento festeggia la massa dei sottoposti alla diretta giurisdizione del Re; in seguito, per il resto del tempo, nella ricorrenza di questo giorno l'Asia intera celebra con sacrifici e feste il compleanno del Re. Quando nasciamo noi invece, come dice il poeta comico,(41) a momenti non se ne accorgono neppure i vicini, o Alcibiade. Dopodiché il fanciullo viene allevato non da una nutrice di poco valore, ma dagli eunuchi che abbiano fama di essere i migliori tra quelli che circondano il re, ai quali tra le altre cose viene affidato l'incarico di prendersi cura del neonato e di ingegnarsi per far sì che sia bellissimo, modellando le membra del bambino e raddrizzandole; e per il fatto che si occupano di queste cose sono tenuti in grande onore. Quando questi fanciulli hanno compiuto sette anni, (42) prendono dimestichezza coi cavalli e frequentano maestri di equitazione; e cominciano ad andare a caccia. Quando poi il ragazzo abbia compiuto due volte sette anni, lo prendono in custodia coloro che quelli chiamano pedagoghi reali: sono i Persiani di età matura scelti come migliori, in numero di quattro, il più saggio, il più giusto, il più temperante, il più coraggioso.

Il primo insegna la scienza dei magi, di Zoroastro figlio di Oromasdes (43) - questo consiste nel culto degli dèi -; insegna anche l'arte di regnare.

Il più giusto insegna al fanciullo a dire in tutta la sua vita la verità; il più temperante a non lasciarsi asservire da alcun piacere, affinché si abitui a essere libero e veramente re, sapendo in primo luogo comandare ai suoi istinti in luogo di lasciarsi asservire da loro. Il più coraggioso lo rende senza paura né timori, poiché se uno ha paura è schiavo.

Per te invece, o Alcibiade, Pericle ha stabilito come pedagogo il più inutilizzabile per vecchiaia tra i suoi schiavi, Zopiro il Trace.(44) Potrei esporti anche le altre forme di crescita e di educazione dei tuoi antagonisti se non fosse impresa troppo lunga, e d'altro canto queste informazioni sono sufficienti a mostrarti anche tutto ciò che ne consegue.

Della nascita della crescita e della educazione tua, Alcibiade, o di qualsiasi altro Ateniese, per farla breve, non si occupa nessuno, a meno che uno non si trovi nella condizione di tuo amante.(45) Se poi tu volessi prendere in considerazione ricchezze, lusso, vesti e strascichi di mantelli, ai profumi di mirra, alla folla dei servitori che ti accompagna, e alle altre forme di raffinatezza proprie dei Persiani, ti vergogneresti di te stesso, rendendoti conto di quanto sei inferiore a loro.

Se poi vorrai guardare alla temperanza, al decoro, alla adattabilità, alla trattabilità, alla grandezza d'animo,(46) alla disciplina, al coraggio, alla resistenza, all'amore per la fatica,(47) al gusto della lotta e alla brama di onori propri dei Lacedemonii, penseresti che in tutte queste cose tu non sei che un fanciullo. Se poi appunti la tua attenzione sulla ricchezza e in base a questo pensi di valere qualcosa, non passiamo sotto silenzio neppure questo punto, se puoi renderti conto di quale sia la tua situazione. Se vuoi prendere in considerazione le ricchezze dei Lacedemonii, ti accorgerai che le ricchezze di qui sono molto inferiori a quelle di lì: infatti tutta la terra che hanno, sia la loro sia quella della Messenia, nessuno potrebbe paragonarla con le proprieta dì qua né per estensione né per qualità né per ricchezza di schiavi, tra gli altri di iloti,(48) né per ricchezza di cavalli e di tutte le altre specie di bestiame che si alleva in Messenia. E tralascio di trattare tutte queste cose: ma l'oro e l'argento che possiedono privatamente a Sparta non si trovano in tutta la Grecia; sono diverse generazioni ormai che ne affluisce qui da tutti i Greci, spesso anche dai barbari, mentre non ne esce mai, ma, proprio come nella favola di Esopo la volpe dice al leone, del denaro che entra a Sparta, le tracce che si dirigono là sono visibili, ma nessuno potrebbe mai scoprirne di quello che ne esce. Di conseguenza bisogna tenere ben presente che gli uomini di là sono i più ricchi tra i Greci e tra di loro poi il più ricco è il re. Da tali ricchezze i prelevamenti più consistenti e più frequenti sono per i re, c'è poi anche il tributo regale, non di piccola entità, che i Lacedemonii pagano ai re. Le ricchezze dei Lacedemonii, come sono grandi rispetto a quelle dei Greci, non sono però nulla rispetto a quelle dei Persiani e del loro re: ho sentito parlare una persona attendibile,(49) uno di coloro che sono risaliti all'interno fino alla corte del Re, il quale diceva di aver attraversato una regione molto vasta e fertile per quasi una giornata di cammino, che gli abitanti del posto chiamano "La cintura della moglie del re"; e che ce n'era un'altra, che era a sua volta chiamata "Il velo" e molte altre località, belle e fertili, riservate ad ornamento della sposa, e ognuna di queste località prende nome da un particolare dell'abbigliamento.

Sicché io so che, se qualcuno dicesse alla madre del Re, Amestride, la moglie di Serse:(50) «Ha in mente di rivaleggiare con tuo figlio il figlio di Dinomache, la quale ha ornamenti forse del valore di cinquanta mine al massimo,(51) mentre il figlio possiede a Erchia (52) un terreno di neanche trecento pletri»,(53) ella si domanderebbe meravigliata contando su cosa questo Alcibiade ha in mente di misurarsi con Artaserse, e credo direbbe che non c'è altro su cui potrebbe contare quest'uomo nel suo tentativo se non sull'impegno e l'abilità: infatti queste cose soltanto sono degne di menzione tra i Greci. Se poi venisse a sapere che questo Alcibiade tenta questa impresa adesso, innanzi tutto prima di aver compiuto venti anni (54) e poi del tutto privo di qualsiasi istruzione; e per di più che quando il suo amante gli dice che deve prima imparare, applicarsi ed esercitarsi per poi andare a misurarsi col Re, non vuole, anzi sostiene di essere all'altezza così com'è, credo che ne sarebbe meravigliata e chiederebbe: «Che cos'è in definitiva ciò su cui conta questo ragazzetto?». Se dunque le dicessimo che conta sulla bellezza, l'imponenza, la nascita, la ricchezza e la natura del suo animo, penserebbe, o Alcibiade, che siamo matti, una volta considerate tutte le qualità del genere che esistono dalle sue parti. E credo che Lampido, la figlia di Leotichida,(55) moglie di Archidamo (56) e madre di Agide,(57) che sono stati tutti re, anche lei si meraviglierebbe, guardando alle doti della sua gente, se tu formulassi il pensiero di misurarti con suo figlio, tu, tirato su così malamente. E allora non ti sembra vergognoso se le mogli dei nemici sanno valutare riguardo a noi quali qualità dobbiamo avere per misurarci con loro meglio di quanto facciamo noi per noi stessi? Allora, caro mio, abbi fiducia in me e nell'iscrizione di Delfi, «Conosci te stesso», e sappi che questi sono i tuoi rivali, e non coloro che tu pensi. Su costoro non potremmo averla vinta con nessun altro mezzo se non con l'impegno e l'abilità; e se difetterai di queste doti, non riuscirai nemmeno a farti un nome tra i Greci e tra i barbari, cosa che mi sembra tu desideri come nessuno desidera nient'altro.

ALCIBIADE: Qual è l'impegno che è necessario mettere in atto, o Socrate? Puoi spiegarmi? Mi sembra infatti che tu abbia detto assolutamente il vero.

SOCRATE: Sì, ma la decisione sul modo in cui potremmo divenire migliori deve essere comune.(58) Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un'educazione, riferendomi a te, e a me invece no; non c'è nulla infatti in cui io differisca da te, se non in una cosa.

ALCIBIADE: In cosa?

SOCRATE: Il mio tutore è migliore e più saggio di Pericle, il tuo.

ALCIBIADE: Chi è costui, o Socrate?

SOCRATE: è un dio, Alcibiade, colui che non mi permetteva, fino a oggi, di conversare con te: poiché credo in lui dico che ne avrai manifestazione non attraverso altri, se non attraverso me.

ALCIBIADE: Tu scherzi, o Socrate.

SOCRATE: Forse, tuttavia è la verità quando dico che abbiamo bisogno di applicazione, tutti gli uomini ne hanno piuttosto bisogno, ma noi due in modo tutto particolare.

ALCIBIADE: Per quel che mi riguarda non sbagli.

SOCRATE: Ma neppure sul fatto che ne ho bisogno io.

ALCIBIADE: Dunque cosa dovremmo fare?

SOCRATE: Non dobbiamo rinunciare né mancare d'animo, caro compagno.

ALCIBIADE: No, certo, non conviene, o Socrate.

SOCRATE: No, infatti, ma bisogna riflettere insieme. E dimmi: dichiariamo di voler diventare migliori il più possibile, è così?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: In quale virtù?

ALCIBIADE: Evidentemente quella che hanno gli uomini valenti.

SOCRATE: Valenti in cosa?

ALCIBIADE: Evidentemente nel trattare gli affari.

SOCRATE: Quali affari? Forse quelli che concernono i cavalli?

ALCIBIADE: No, certo.

SOCRATE: Infatti ci rivolgeremmo a maestri di equitazione, vero?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Parli allora di questioni che concernono la navigazione?

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Infatti ci rivolgeremmo a dei marinai, vero?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Ma allora quali affari? E chi è che li pratica?

ALCIBIADE: Sono gli affari praticati, in Atene, dai gentiluomini. (59)

SOCRATE: Per gentiluomini intendi gli uomini accorti o gli uomini privi di senno?

ALCIBIADE: Gli accorti.

SOCRATE: Non è forse vero che ciò in cui ciascuno è accorto in questo è valente?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E in ciò in cui manca di accortezza è inetto?

ALCIBIADE: E come no?

SOCRATE: Dunque, il calzolaio è accorto nel fabbricare le scarpe?

ALCIBIADE: Sicuramente.

SOCRATE: Dunque è valente in questo ambito?

ALCIBIADE: è valente.

SOCRATE: E che? Per la manifattura dei mantelli il calzolaio non è forse privo di accortezza?

ALCIBIADE: Già.

SOCRATE: è dunque un inetto in questo?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: La stessa persona è dunque, in base a questo discorso, mediocre e valente.

ALCIBIADE: Così pare.

SOCRATE: Dunque tu vuoi dire che gli uomini valenti sono anche mediocri?

ALCIBIADE: No davvero.

SOCRATE: Ma allora chi sono coloro che chiami i valenti?

ALCIBIADE: Intendo coloro che sono capaci di governare nella città.

SOCRATE: Certo non sui cavalli?

ALCIBIADE: No, certo.

SOCRATE: Ma sugli uomini?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Sui malati?

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Ma su coloro che navigano?

ALCIBIADE: No, non dico su loro.

SOCRATE: Su quelli che mietono?

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Ma allora su coloro che non fanno niente o su coloro che fanno qualcosa?

ALCIBIADE: Parlo di coloro che fanno qualcosa.

SOCRATE: Che cosa? Cerca di chiarire anche a me.

ALCIBIADE: Sì: coloro che stabiliscono relazi oni reciproche e ricorrono gli uni agli altri, com'è il nostro modo di vivere nelle città.

SOCRATE: Dunque tu parli di governare su uomini che si servono di uomini.

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Ad esempio su nostromi che si servono di rematori?

ALCIBIADE: No, certo.

SOCRATE: Perché questa è la prerogativa propria del timoniere?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Ma allora vuoi dire governare su flautisti, che dirigono uomini nel canto e si servono di coreuti?

ALCIBIADE: No davvero.

SOCRATE: Perché questa è competenza del maestro del coro?(60)

ALCIBIADE: Sicuramente.

SOCRATE: Ma allora che cosa vuoi dire con essere capaci di governare su uomini che si servono di altri uomini?

ALCIBIADE: Io voglio dire coloro che vivono politicamente insieme e si scambiano rapporti gli uni con gli altri, su costoro dico di governare nella città.

SOCRATE: Qual è dunque quest'arte? E, per farti di nuovo la domanda alla maniera di poco fa: quale arte rende gli uomini capaci di comandare su coloro che condividono la stessa navigazione?

ALCIBIADE: L'arte del timoniere.

SOCRATE: E su quelli che partecipano insieme al canto, come dicevamo poco fa, quale conoscenza rende atti a governare?

ALCIBIADE: Quella che tu menzionavi poc'anzi, la corodidascalia.

SOCRATE: E ancora, e di quelli che vivono politicamente insieme come chiami l'arte?

ALCIBIADE: Buon consiglio (61) lo chiamo, o Socrate.

SOCRATE: Come? Forse che il mestiere di timoniere ti sembra privo di buon consiglio?

ALCIBIADE: No, certo.

SOCRATE: Anzi è buon consiglio?

ALCIBIADE: Io lo penso, in relazione almeno alla salvaguardia di quelli che navigano.

SOCRATE: Dici bene. Ma allora? Quello che tu chiami buon consiglio a cosa serve?

ALCIBIADE: Ad amministrare meglio la città e alla sua sicurezza.

SOCRATE: E con la presenza e l'assenza di cosa la città è meglio amministrata e salvaguardata? Se ad esempio tu mi chiedessi: «Grazie alla presenza e all'assenza di cosa il nostro corpo è meglio gestito e mantenuto in salute?», io potrei dire che questo si verifica quando c'è la salute e quando non c'è la malattia. Non la pensi anche tu così?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E se poi tu mi domandassi: «Grazie alla presenza di cosa i nostri occhi si trovano al meglio della loro condizione?», allo stesso modi ti direi «quando c'è la vista e quando è assente la cecità». E le orecchie, quando è assente la sordità e c'è invece l'udito, sono in migliori condizioni e vengono curate meglio.

ALCIBIADE: è giusto.

SOCRATE: E che dire di una città? Grazie alla presenza di cosa e all'assenza di cosa è nelle condizioni migliori e viene curata e amministrata meglio?

ALCIBIADE: Credo, o Socrate, quando c'è amicizia reciproca tra i suoi cittadini, ma sono assenti l'odio e la discordia civile.

SOCRATE: Dunque chiami amicizia una concordia o una discordia?

ALCIBIADE: Una concordia.

SOCRATE: Ebbene, grazie a quale arte le città sono d'accordo sui numeri?

ALCIBIADE: Grazie all'aritmetica.

SOCRATE: E per i privati? Non è ancora grazie a questa?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E non è grazie a questa che ciascuno è d'accordo con se stesso?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Grazie a quale scienza ciascuno è d'accordo con se stesso riguardo alla spanna (62) e al cubito, (63) su quale sia più lungo? Non è forse grazie all'arte della misurazione?

ALCIBIADE: E che altro?

SOCRATE: E non è forse grazie alla stessa arte che sono d'accordo sia i privati tra loro e sia le città?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Che dire poi del peso? Non è la stessa cosa?

ALCIBIADE: Lo confermo.

SOCRATE: Ebbene, questa concordia di cui tu parli che cos'è e cosa riguarda e quale arte la produce? E l'arte che la produce per la città è la stessa che la produce anche per i privati, per ognuno nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri?

ALCIBIADE: è verosimile.

SOCRATE: Qual è dunque? Non stancarti di rispondere, ma sii sollecito nel parlare.

ALCIBIADE: Io credo di parlare di amicizia e concordia, quella per cui un padre e una madre che amano il proprio figlio siano d'accordo con lui e un fratello col fratello e una donna col marito.

SOCRATE: Dunque, o Alcibiade:, tu pensi che un marito possa essere d'accordo con la moglie sulla maniera di filare, lui che non sa farlo con lei che invece sa farlo?

ALCIBIADE: No sicuramente.

SOCRATE: E in effetti neppure deve saperne niente: perchè questa è una conoscenza da donne.

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E che? Una donna potrebbe essere d'accordo col marito sull'arte oplitica, (64) pur non avendola imparata?

ALCIBIADE: No sicuramente.

SOCRATE: Forse infatti diresti che è materia da uomo.

ALCIBIADE: In effetti.

SOCRATE: Dunque in base al tuo discorso certe conoscenze sono proprie delle donne e certe altre degli uomini.

ALCIBIADE: Come potrebbe non essere così?

SOCRATE: Non è dunque in queste cose che c'è concordia tra donne e uomini.

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Neppure amicizia, se davvero l'amicizia è concordia.

ALCIBIADE: Evidentemente no.

SOCRATE: Così fin tanto che le donne fanno le cose che competono loro non sono amate dagli uomini.

ALCIBIADE: Sembra di no.

SOCRATE: Né gli uomini dalle donne, finché fanno cose da uomini.

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Allora nemmeno le città sono ben amministrate ogni volta che ognuno fa ciò che gli compete?(65)

ALCIBIADE: Io credo di sì, o Socrate.

SOCRATE: Ma come puoi dirlo se non c'è amicizia, grazie alla cui presenza affermiamo che le città sono ben amministrate, altrimenti no?

ALCIBIADE: Ma a me sembra che anche in questo ci sia amicizia tra loro, perché ciascuno fa ciò che gli compete.

SOCRATE: Non la pensavi così poco fa; ma ora come dici? Quando non c'è concordia c'è amicizia? E può esserci concordia su cose che gli uni sanno e gli altri no?

ALCIBIADE: è impossibile.

SOCRATE: Fanno cose giuste o ingiuste, quando ciascuno fa ciò che gli compete?

ALCIBIADE: Cose giuste, come potrebbe essere altrimenti?

SOCRATE: Dunque quando i cittadini nella città fanno cose giuste, non c'è amicizia tra loro?

ALCIBIADE: Mi sembra che di necessità ci sia, o Socrate.

SOCRATE: Allora cosa sono mai l'amicizia e la concordia di cui parli e circa le quali noi dobbiamo essere saggi e capaci di buoni consigli,(66) se vogliamo essere uomini di valore? Infatti non riesco a capire né cosa siano né in quali uomini si trovino: a volte sembrano essere chiaramente presenti, a volte invece non lo sono, negli stessi uomini, in base a quello che è il tuo discorso.

ALCIBIADE: Ma, per gli dèi, o Socrate, io stesso non so cosa dico; c'è il rischio che da tempo io sia, senza rendermene conto, in una condizione estremamente vergognosa.

SOCRATE: Ma bisogna avere coraggio. Se ti fossi accorto che ti era capitata questa stessa cosa a cinquant'anni, ti sarebbe stato difficile prenderti cura di te stesso, ma quella che hai ora è l'età in cui bisogna accorgersene.

ALCIBIADE: E cosa deve fare chi se ne accorge, o Socrate?

SOCRATE: Rispondere alle domande, o Alcibiade: e se lo farai se dio vuole, e se bisogna avere anche un po' di fiducia nella mia capacità di divinazione, sia tu sia io staremo meglio.

ALCIBIADE: Almeno riguardo al fatto che io risponda, sarà così.

SOCRATE: Ma via, che cos'è il prendersi cura di sé - spesso, senza accorgercene, potremmo non prenderci cura di noi stessi, credendo di farlo - e allora quand'è che un uomo fa questo? Quando si prende cura dei suoi affari, è allora che si prende cura anche di sé?

ALCIBIADE: Mi sembra di sì.

SOCRATE: Cosa? Quand'è che un uomo si prende cura dei suoi piedi? Forse quando si prende cura di tutto ciò che riguarda i piedi?

ALCIBIADE: Non capisco.

SOCRATE: Tu non dici che una certa cosa riguarda la mano? Per esempio un anello diresti che è di un'altra parte del corpo umano e non del dito?

ALCIBIADE: No, certo.

SOCRATE: E la scarpa allo stesso modo non appartiene al piede?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E i mantelli e le coperte allo stesso modo a qualche altra parte del corpo?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E dunque quando ci prendiamo cura delle scarpe, allora ci prendiamo cura dei piedi?

ALCIBIADE: Non capisco proprio, o Socrate.

SOCRATE: Come, Alcibiade? Tu hai una definizione da dare per il "prendersi cura in modo giusto" di una cosa, qualunque sia?

ALCIBIADE: Certamente.

SOCRATE: Dunque quando uno rende migliore qualcosa, allora tu parli di giusta cura?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Quale arte rende migliori le scarpe?

ALCIBIADE: L'arte del calzolaio.

SOCRATE: E con l'arte del calzolaio allora che ci prendiamo cura delle scarpe?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Ed è con l'arte del calzolaio che ci prendiamo cura anche dei piedi? O forse con l'arte con cui rendiamo migliori i piedi?

ALCIBIADE: Con quella.

SOCRATE: L'arte con cui rendiamo migliori i piedi non è appunto quell'arte che rende migliore anche il resto e corpo?

ALCIBIADE: Mi sembra di sì.

SOCRATE: E questa non è la ginnastica?

ALCIBIADE: Precisamente.

SOCRATE: E con la ginnastica ci prendiamo cura dei piedi, mentre con l'arte del calzolaio di ciò che appartiene ai piedi?

ALCIBIADE: è proprio così.

SOCRATE: E con la ginnastica ci prendiamo cura delle mani, mentre con l'arte di incidere gli anelli di ciò che appartiene alle mani?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E con la ginnastica ci prendiamo cura del corpo, con la tessitura e, con altre arti di ciò che appartiene al corpo?

ALCIBIADE: è assolutamente vero.

SOCRATE: Dunque con un'arte ci prendiamo cura di ciascuna cosa, presa per sé, mentre con un'altra arte ci prendiamo cura di ciò che appartiene a quella cosa.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: Allora quando ti prendi cura di ciò che ti appartiene, non ti prendi cura di te stesso.

ALCIBIADE: In nessun modo.

SOCRATE: Infatti, a quel che sembra, non è la stessa arte quella con cui ci si prende cura di se stessi e di ciò che appartiene a se stessi.

ALCIBIADE: No, è chiaro.

SOCRATE: Suvvia, con quale arte potremmo prenderci cura di noi stessi?

ALCIBIADE: Non so dirlo.

SOCRATE: Ebbene, su un punto almeno siamo d'accordo, che è un'arte con la quale non potremmo migliorare qualsivoglia delle cose che ci appartengono, ma con la quale potremmo migliorare noi stessi?

ALCIBIADE: Ciò che dici è vero.

SOCRATE: E poi, avremmo potuto conoscere quale arte migliora le scarpe, senza conoscere le scarpe?

ALCIBIADE: è impossibile.

SOCRATE: Né quale arte migliora gli anelli, se non conoscessimo l'anello.

ALCIBIADE: è vero.

SOCRATE: E allora? Quale arte rende migliori se stessi, potremmo noi conoscerla se ignoriamo che cosa mai siamo noi stessi?

ALCIBIADE: è impossibile.

SOCRATE: è dunque facile conoscere se stessi ed era uno sciocco colui che pose questo detto nel tempio di Pito (67) oppure è un'impresa difficile e non di tutti?

ALCIBIADE: Spesso, o Socrate, pensai che fosse alla portata di tutti, molte volte invece che fosse estremamente difficile.

SOCRATE: Ma, Alcibiade, che sia facile o no, tuttavia la cosa sta così per noi: conoscendo qu esto, noi potremmo conoscere la cura di noi stessi, ma se siamo ignoranti non possiamo farlo.(68)

ALCIBIADE: Le cose stanno così.

SOCRATE: Forza allora, in che modo potrebbe essere trovato il se stesso in sé?(69) Così potremmo trovare cosa noi siamo, ma rimanendo nell'ignoranza di questo, non potremmo.

ALCIBIADE: Hai ragione.

SOCRATE: Su, dunque, per Zeus: con chi parli tu in questo momento? Non è forse con me?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E anche io con te?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: è Socrate colui che parla?

ALCIBIADE: Infatti.

SOCRATE: Alcibiade colui che ascolta?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E Socrate parla con un discorso?

ALCIBIADE: Come no?

SOCRATE: Ma il parlare e il servirsi di un discorso tu li consideri in qualche modo la stessa cosa.

ALCIBIADE: Sicuramente.

SOCRATE: Ma chi usa qualcosa e la cosa di cui fa uso non sono cose diverse?

ALCIBIADE: Cosa vuoi dire?

SOCRATE: Per esempio il cuoiaio taglia con il coltellino, con il trincetto e con altri arnesi.

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E dunque chi taglia e si serve di un arnese è una cosa, mentre gli arnesi dei quali si serve tagliando sono un'altra cosa?

ALCIBIADE: E come no, in effetti?

SOCRATE: E dunque, analogamente, anche gli strumenti con i quali suona il citarista e il citarista stesso sarebbero due cose diverse?

ALCIBIADE: Già.

SOCRATE: Ed è ciò che ti chiedevo poc'anzi, se chi si serve di un oggetto e la cosa di cui fa uso risultano sempre cose diverse.

ALCIBIADE: Sembra di sì.

SOCRATE: Che cosa potremmo dire del cuoiaio? Che taglia soltanto con gli utensili o anche con le mani?

ALCIBIADE: Anche con le mani.

SOCRATE: Dunque si serve anche di queste?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E non si serve anche degli occhi quando taglia?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Colui che si serve di queste cose e le cose delle quali si serve siamo d'accordo che sono distinte?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Allora il cuoiaio e il citarista vanno distinti dalle mani e dagli occhi con i quali lavorano?

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: Ma un uomo non si serve di tutto il suo corpo?

ALCIBIADE: Certamente.

SOCRATE: E non erano distinti colui che si serve di una cosa e la cosa di cui si serve?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Dunque l'uomo è altra cosa dal suo corpo?

ALCIBIADE: Sembra di sì.

SOCRATE: Che cos'è allora un uomo?

ALCIBIADE: Non so dire.

SOCRATE: Dunque tu puoi dire che è ciò che si serve del corpo.

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Ma che cos'altro si serve di questo se non l'anima?

ALCIBIADE: Niente altro.

SOCRATE: E non lo fa forse esercitando il comando?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E io credo che su quest'altra cosa nessuno potrebbe pensare diversamente.

ALCIBIADE: Quale?

SOCRATE: Che l'uomo è una sola di tre cose.

ALCIBIADE: Di quali cose?

SOCRATE: Anima o corpo o le due cose insieme, e questo come un tutto intero.

ALCIBIADE: E allora?

SOCRATE: Ma non abbiamo convenuto che ciò che comanda al corpo è l'uomo?

ALCIBIADE: L'abbiamo convenuto.

SOCRATE: Forse che il corpo si dà ordini da se stesso?

ALCIBIADE: Assolutamente no.

SOCRATE: E infatti abbiamo detto che è lui a ricevere degli ordini.

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Allora non dovrebbe essere questo ciò che cerchiamo.

ALCIBIADE: Non sembra così.

SOCRATE: Ma forse è l'unione delle due cose a comandare sul corpo e questo è l'uomo?

ALCIBIADE: Forse è così.

SOCRATE: Ma, di tutte, questa è la cosa meno probabile: infatti se una delle due non partecipa al comando, non c'è possibilità che l'unione delle due parti eserciti il comando.

ALCIBIADE: è giusto.

SOCRATE: Dal momento che né il corpo né le due cose insieme sono l'uomo, resta, credo, o che l'uomo non sia niente o, se è qualcosa, risulta che non è nient'altro che anima.

ALCIBIADE: Precisamente.

SOCRATE: Deve esserti dimostrato in maniera ancora più chiara che l'anima è l'uomo?

ALCIBIADE: No, per Zeus, mi sembra sia già sufficiente.

SOCRATE: Se la dimostrazione non è stata dettagliata, ma almeno soddisfacente, ci basta; infatti ne avremo una nozione dettagliata quando troveremo ciò che abbiamo lasciato poc'anzi da parte perché richiedeva una riflessione approfondita.

ALCIBIADE: Cos'è questa cosa?

SOCRATE: Ciò che dicevamo poco fa in questi temini, cioè che per prima cosa bisognerebbe indagare lo stesso in se stesso: finora abbiamo esaminato, in luogo del "se stesso", ogni singolo se stesso che cosa sia; e forse basterà: infatti non potremmo dire che alcun'altra cosa è padrona assoluta di noi stessi più dell'anima.

ALCIBIADE: No davvero.

SOCRATE: Potrebbe andar bene pensarla così, che io e te conversiamo insieme, servendoci di parole, ma si tratta di un'anima che si rivolge a un'anima?

ALCIBIADE: Certo, è così.

SOCRATE: Bene questo è proprio ciò che dicemmo poco fa, cioè che ZSocrate conversa con Alcibiade servendosi di un discorso, non rivolgendo le parole al suo volto, come sembra, ma ad Alcibiade: ma questo è l'anima.

ALCIBIADE: A me sembra così.

SOCRATE: Dunque, colui che ci ordina di conoscere se stesso ci ordina di conoscere l'anima.

ALCIBIADE: Così pare.

SOCRATE: E colui che conosce qualcuna delle parti del suo corpo conosce le cose che sono sue, ma non conosce se stesso.

ALCIBIADE: è così. SOCRATE: E nessun medico conosce se stesso in quanto medico, e nessun maestro di palestra in quanto maestro di palestra.

ALCIBIADE: Sembra di no.

SOCRATE: Gli agricoltori e gli altri lavoratori sono molto lontani dal conoscere se stessi. Infatti, a quel che sembra, non conoscono neppure ciò che appartiene loro, ma solo cose ancora più lontane da ciò che è loro proprio, nelle loro professioni: infatti conoscono le cose che riguardano il corpo e servono a curarlo.

ALCIBIADE: Tu dici il vero.

SOCRATE: Se dunque la saggezza è conoscere se stessi, nessuno di costoro è saggio, per quanto attiene alla sua arte.

ALCIBIADE: Mi sembra dì no.

SOCRATE: Perciò allora queste arti passano per attività manuali di bassa lega e apprendimenti inadatti a un uomo di valore.

ALCIBIADE: Assolutamente.

SOCRATE: Dunque, ancora, colui che si prende cura del corpo cura ciò che è suo e non se stesso?

ALCIBIADE: è probabile.

SOCRATE: E colui che si dedica ai soldi non si prende cura né di se stesso né di ciò che è suo, ma di cose ancora più lontane da ciò che gli è proprio?

ALCIBIADE: Io lo credo.

SOCRATE: E dunque l'affarista non fa più i propri affari.

ALCIBIADE: Giusto.

SOCRATE: Se qualcuno è stato amante del corpo di Alcibiade, non amò Alcibiade, ma qualcosa di ciò che appartiene ad Alcibiade.

ALCIBIADE: Dici il vero.

SOCRATE: E invece, ti ama colui che ama la tua anima?

ALCIBIADE: Sembra inevitabile, in base al tuo discorso.

SOCRATE: E non è forse vero che colui che ama il tuo corpo, quando cessa il suo fiorire, se ne va?

ALCIBIADE: Sembra così.

SOCRATE: Non è invece vero che colui che ama l'anima non la lascia finché prosegue per la via del miglioramento?

ALCIBIADE: è verosimile.

SOCRATE: Dunque io sono colui che non se ne va, ma resta quando il corpo cessa il suo vigore, e tutti gli altri se ne sono andati.

ALCIBIADE: E fai bene, o Socrate; e non andartene.

SOCRATE: Allora cerca di essere bello il più possibile.

ALCIBIADE: Certo, mi impegnerò.

SOCRATE: Le cose dunque stanno così per te: non ci fu, a quel che sembra, innamorato di Alcibiade figlio di Clinia, e non ce n'è se non uno solo, ed è uno desiderabile, Socrate figlio di Sofronisco e di Fenarete.

ALCIBIADE: Vero.

SOCRATE: Non dicesti che ti avevo prevenuto di poco venendo da te, perché volevi venire tu da me per primo per sapere per quale ragione io solo non me ne andavo?

ALCIBIADE: Era così infatti.

SOCRATE: Questa sola era la ragione, perché io ero innamorato di te, mentre gli altri lo erano delle tue cose: e mentre le tue cose smettono il loro momento felice, tu invece cominci a fiorire. E d'ora in poi se non ti lasci guastare dal popolo ateniese e non diventi meno bello, non intendo abbandonarti; infatti questo io temo più di tutto: che tu, diventato l'amante del popolo, vada in rovina. Questo stesso destino hanno infatti incontrato già molti e buoni Ateniesi. In effetti «il popolo del magnanimo Eretteo»(70) ha un bel volto; ma bisogna vederlo senza vesti. Adotta dunque la cautela che ti raccomando.

ALCIBIADE: Quale?

SOCRATE: Per prima cosa allenati, carissimo, e impara ciò che occorre imparare per entrare in politica, ma non entrarvi prima, perché tu proceda rifornito di un antidoto e non soffra alcun terribile male.

ALCIBIADE: Mi sembra che tu parli bene, o Socrate; ma cerca di spiegarmi in che modo noi possiamo prenderci cura di noi stessi.

SOCRATE: Forse siamo già abbastanza avanti - è già stato raggiunto un accordo conveniente su cio che noi siamo - mentre avevamo paura, se avessimo sbagliato su questo punto, di prendenderci cura senza avvedercene di qualcos'altro, e non di noi stessi.

ALCIBIADE: è così.

SOCRATE: E dopo di ciò convenimmo che bisogna prendersi cura dell'anima e guardare a questa.

ALCIBIADE: Chiaro.

SOCRATE: Ad altri invece va lasciata la cura del corpo e del danaro.

ALCIBIADE: Naturalmente.

SOCRATE: In che modo potremmo dunque conoscere nella maniera migliore questa? (71) Poiché, una volta che l'abbiamo conosciuta, senza dubbio conosceremo anche noi stessi. Ma, per gli dèi, quel giusto precetto dell'iscrizione delfica, che abbiamo ricordato or ora, non l'abbiamo capito?

ALCIBIADE: Con questo ragionamento cosa vuoi dire, o Socrate?

SOCRATE: Ti dirò cosa sospetto che dica e che ci consigli quella iscrizione. Temo però che non sia individuabile da nessuna parte una sua esemplificazione, se non solo riferendoci alla vista.

ALCIBIADE: Cosa vuoi dire con questo?

SOCRATE: Rifletti anche tu: se avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l'occhio avrebbe visto se stesso?

ALCIBIADE: è chiaro.

SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?

ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.

SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell'occhio col quale guardiamo non c'è qualcosa di questo genere?

ALCIBIADE: Certamente.

SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell'occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla,(72) dato che è come un immagine di chi guarda?

ALCIBIADE: Quel che dici è vero.

SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: Ma se un occhio volesse guardare a un'altra delle parti dell'uomo o a qualche altro oggetto, se non ciò a cui casualmente sia simile, non vedrà se stesso.

ALCIBIADE: Quel che dici è vero.

SOCRATE: Se dunque un occhio ha intenzione di guardare se stesso, deve guardare in un occhio e in quel punto dell'occhio nel quale si trova a risiedere la virtù propria dell'occhio: e questa non è la vista?

ALCIBIADE: è così.

SOCRATE: Dunque, caro Alcibiade, anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare a un'altra anima, e in particolar modo in quella sua parte nella quale risiede la virtù propria dell'anima, la saggezza, o a qualcos'altro a cui questa parte possa risultare simile.(73)

ALCIBIADE: A me pare così, Socrate.

SOCRATE: Possiamo dunque dire che c'è una parte dell'anima più di questa in cui risiedono il conoscere e il pensare?

ALCIBIADE: Non possiamo.

SOCRATE: Questa parte di essa infatti somiglia al dio; e uno, guardando ad essa e conoscendo anche tutto il divino, dio e pensiero, in questo modo potrebbe avere anche la più grande conoscenza di se stesso.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: E come gli specchi, più chiari, più puri e più luminosi dello specchio dell'occhio, così anche il dio non è forse più puro e più luminoso della parte migliore che si trova nella nostra anima?

ALCIBIADE: Sembra di sì, o Socrate.

SOCRATE: Guardando allora al dio, ci serviremmo dello specchio migliore, precisamente lo specchio delle cose umane che sono rivolte alla virtù dell'anima, e in questo modo vedremmo nel modo migliore e conosceremmo noi stessi.

ALCIBIADE: Sì. (74)

SOCRATE: Ma non abbiamo convenuto che conoscere se stessi è saggezza?(75)

ALCIBIADE: Perfettamente.

SOCRATE: Se dunque non conosciamo noi stessi e non siamo saggi, potremmo conoscere ciò che noi abbiamo di cattivo e di buono?

ALCIBIADE: E in che modo questo potrebbe accadere, o Socrate?

SOCRATE: E infatti forse ti sembra impossibile che chi non conosce Alcibiade conosca le cose di Alcibiade, che sono cioè di Alcibiade.

ALCIBIADE: è assolutamente impossibile, per Zeus.

SOCRATE: E neppure le nostre che sono nostre, se non conosciamo neppure noi stessi, vero?

ALCIBIADE: E come no, in effetti?

SOCRATE: Se dunque non conosciamo le nostre cose, non conosciamo neppure quelle che appartengono alle nostre cose, vero?

ALCIBIADE: No, evidentemente.

SOCRATE: Allora non eravamo affatto d'accordo, quando convenivamo poco fa che ci sono degli uomini i quali non conoscono se stessi, ma conoscono le loro cose, mentre altri conoscono ciò che appartiene alle loro cose. Sembra infatti proprio di un solo uomo e di una sola arte conoscere se stessi, le proprie cose e le cose che a queste appartengono.

ALCIBIADE: è probabile.

SOCRATE: Ma analogamente chi ignora ciò che gli appartiene dovrebbe in qualche modo ignorare ciò che appartiene agli altri.

ALCIBIADE: Certo.

SOCRATE: E se ignora ciò che appartiene agli altri ignorerà anche ciò che appartiene alla città.

ALCIBIADE: Necessariamente.

SOCRATE: Un tal uomo non dovrebbe dunque diventare un politico.

ALCIBIADE: No davvero.

SOCRATE: E neppure un amministratore della casa.

ALCIBIADE: No davvero.

SOCRATE: Non saprà nemmeno ciò che sta facendo.

ALCIBIADE: No, infatti.

SOCRATE: E colui che non sa non commetterà degli errori?

ALCIBIADE: Garantito.

SOCRATE: E sbagliando non avrà una pessima riuscita sia in privato sia in pubblico?

ALCIBIADE: Come no?

SOCRATE: E riuscendo male non sarà uno sventurato?

ALCIBIADE: Molto, certo.

SOCRATE: E che ne è di coloro ai quali costui destina le sue azioni?

ALCIBIADE: Sventurati anche loro.

SOCRATE: Non è dunque possibile, se non si è saggi e virtuosi, essere felici.

ALCIBIADE: No, non è possibile.

SOCRATE: I cattivi tra gli uomini sono dunque sventurati.

ALCIBIADE: Molto, certo.

SOCRATE: Non è certo colui che è diventato ricco che si libera dall'infelicità, ma colui che è diventato saggio.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: Non è dunque di mura né di triremi né di cantieri navali ciò di cui hanno bisogno le città, o Alcibiade, se vogliono essere felici, né di popolazione né di grandezza, se manca la virtù.

ALCIBIADE: No, certamente.

SOCRATE: Se allora vuoi gestire gli affari della città in modo retto e onorevole, devi trasmettere ai cittadini la virtù.

ALCIBIADE: Certo, come no?

SOCRATE: Ma in che modo si può trasmettere ciò che non si ha?

ALCIBIADE: E come?

SOCRATE: Bisogna per prima cosa che tu ti renda padrone della virtù e così deve fare chiunque altro voglia stare al governo e curarsi non soltanto privatamente di se stesso e dei propri interessi, ma della città e degli interessi della città.

ALCIBIADE: Quel che dici è vero.

SOCRATE: Non devi procurare libertà d'azione né il potere di fare ciò che vuoi, a te stesso e neppure alla città; devi invece procurare giustizia e saggezza.

ALCIBIADE: è chiaro.

SOCRATE: Agendo infatti con giustizia e con saggezza tu e la città agirete in modo gradito agli dèi.

ALCIBIADE: è naturale.

SOCRATE: E, cosa che appunto dicevamo nei precedenti discorsi, agirete tenendo sempre davanti agli occhi ciò che è divino e luminoso.

ALCIBIADE: è chiaro.

SOCRATE: Ma appunto con lo sguardo rivolto a questo, voi vedrete e conoscerete voi stessi e il vostro bene.

ALCIBIADE: Già.

SOCRATE: Agirete rettamente e bene?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: Io voglio garantirvi che così facendo saret e felici.

ALCIBIADE: E in realtà sei un garante assicurato.(76)

SOCRATE: Se invece agite in modo ingiusto, guardando a ciò che è empio e tenebroso, agirete, è presumibile, in modo analogo, senza conoscere voi stessi.

ALCIBIADE: è naturale.

SOCRATE: Infatti colui che abbia possibilità di fare ciò che vuole, caro Alcibiade, ma non ha raziocinio, che destino è verosimile che gli capiti, sia egli un privato o si tratti di una città? Ad esempio a un malato, che abbia facoltà di fare ciò che vuole, privo del raziocinio del medico, e agisca come un tiranno che non si lasci reprimere da nessuno in nulla,(77) cosa accadrà? Non è probabile, come è naturale, che mandi in rovina il suo corpo?

ALCIBIADE: Dici il vero.

SOCRATE: E su una nave, se qualcuno ha facoltà di fare ciò che gli pare, senza essere provvisto del raziocinio e della capacità del pilota, intuisci cosa potrebbe capitare a lui e ai suoi compagni di traversata?

ALCIBIADE: Io penso che morirebbero tutti.

SOCRATE: Allo stesso modo in una città e in ogni tipo di autorità e potere, non pensi che se mancano di virtù ne consegue una riuscita infelice?

ALCIBIADE: Per forza.

SOCRATE: Non bisogna dunque, ottimo Alcibiade, procurarsi il potere tirannico né per se stesso né per la città, se volete essere felici, bensì la virtù.

ALCIBIADE: Dici cose vere.

SOCRATE: Ma prima di avere raggiunto la virtù è meglio essere guidati da una persona migliore piuttosto che comandare, anche per un uomo, non solo per un fanciullo.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: E ciò che è meglio non è anche più bello?

ALCIBIADE: Sì.

SOCRATE: E ciò che è più bello anche più conveniente?

ALCIBIADE: E come no?

SOCRATE: Dunque al malvagio si addice servire: per lui infatti è meglio.

ALCIBIADE: Già.

SOCRATE: La malvagità, certo, è caratteristica da schiavi.

ALCIBIADE: è evidente.

SOCRATE: La virtù invece, da uomini liberi.

ALCIBIADE: Proprio.

SOCRATE: Non bisogna forse fuggire, compagno mio, tutto ciò che è da schiavi?

ALCIBIADE: In massimo grado, o Socrate.

SOCRATE: E adesso ti rendi conto di quale sia la tua condizione? Quella di un uomo libero oppure no?

ALCIBIADE: Io credo di rendermene conto fin troppo.

SOCRATE: Allora sai come uscire da questa tua condizione presente? Per non farne il nome, a proposito di un bell'uomo.

ALCIBIADE: Sì, lo so.

SOCRATE: In che modo?

ALCIBIADE: Se lo vuoi tu, o Socrate.

SOCRATE: Non dici bene, o Alcibiade.

ALCIBIADE: Ma come bisogna dire?

SOCRATE: «Se dio vuole».

ALCIBIADE: Allora dico così. Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci il ruolo, o Socrate, i o il tuo e tu il mio; infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro.

SOCRATE: Nobile Alcibiade, il mio amore non differirà allora in nulla da quello della cicogna,(78) se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato, sarà a sua volta oggetto delle cure di quest'ultimo.

ALCIBIADE: Ebbene, le cose stanno così e comincerò fin d'ora a prendermi cura della giustizia.

SOCRATE: Vorrei che tu proseguissi su questa strada: tuttavia temo, e non perché in qualche modo io dubiti delle tue doti naturali, ma perché vedo la forza della città, che possa averla vinta su me e su te.

NOTE:

1) Componente non secondaria del dialogo è la definizione del rapporto erotico tra Socrate e Alcibiade, un tema che significativamente torna in chiusura. Risulta con evidenza la funzione iniziatico-paideutica, tipica, nel mondo greco, della relazione tra erastés ed erómenos. Sul tema, tra gli studi più recenti, vedi. M. Sartre, L'omosessualita nella Grecia antica, in La Grecia antica, a cura di C. Mossé, trad. italiana Bari 1992, pp. 245-65; L. Pizzolato, L'idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Torino 1993, pp. 10-11; E Cambi, La pederastia come valore paideutico: tra propaganda, idealizzazione e censura, in La multimedialità della comunicazione educativa in Grecia e a Roma. Scenario. Percorsi, a cura di R. Frasca, Bari 1996, pp. 53-58, con bibliografia.

2) Cfr. Apologia Socratis 31c-d; 40a-b.

3) Olimpiodoro, In Platonis Alcibiadem 34, si interroga sull'uso di "megalóphrones" a proposito di «volgari amanti» ("phortikoi érostai"), e pensa al trasferimento all'innamorato di una qualità dell'amato. Il prosieguo della nota è prevalentemente in impossibile da riportare.

4) Per linea paterna Alcibiade discendeva da Aiace; quest'ultimo aveva avuto a Troia da una prigioniera frigia Eurisace, che successe poi al nonno Telamone sul trono di Salamina e in seguito consegnò l'isola ad Atene, ottenendone la cittadinanza. Attraverso sua madre Dinomache, figlia di Megacle e nipote del riformatore Clistene, Alcibiade apparteneva al potente "ghénos" degli Alcmeonidi, così come Pericle; a quest'ultimo furono affidati in tutela Alcibiade e suo fratello alla morte del padre Clinia, caduto nella battaglia di Coronea (447 a.C.).

5) Ciro il Grande, fondatore dell'impero persiano achemenide (559-530 a.C.); Serse, figlio di Dario, re di Persia dal 486 al 465 a.C.

6) L'espunzione del passo tra parentesi è di Burnet. Croiset e Lamb preferiscono mantenere la lezione dei codici.

7) Cfr. Plutarco, Alcibiades 2,5.

8) Cfr. Platone, Euthyphro 3b-c, Sull'esistenza di un interprete ufficiale degli oracoli pitici, si veda Platone, Leges 6,759d.

9) Concetto comprensivo per i Greci anche di poesia e canto.

10) cfr. supra 106e.

11) Astragali, ossicini del tarso, usati da tempi antichissimi come dadi da gioco (cfr. Iliade libro 23,85-88; Platone, Theaetetus 154c).

12) La "petteia", gioco da scacchiera vagamente simile alla dama o agli scacchi: in Platone si vedano Charmides 174b; Gorgias 450d; Respublica 1, 333b; 2,374c.

13) Sconfitta ateniese del 457 a.C., durante la cosiddetta prima guerra del Peloponneso. In una località della Beozia, tra Tebe e Tanagra, gli Spartani, intervenuti in Grecia centrale contro i Focesi, riescono a forzare il blocco ateniese per rientrare nel Peloponneso attraverso la Megaride.

14) Altra sconfitta di Atene (446 a.C.), che pone fine al suo dominio in Grecia centrale.

15) Formulazione esplicita di uno dei princìpi basilari del m etodo socratico, mirato a far scaturire le conclusioni centrali della discussione dalla bocca dell'interlocutore (metodo 'maieutico', 'dell'ostetrica', capace di far partorire).

16) Euripide, Hippolytus 352.

17) Socrate gioca qui e più avanti sull'ambivalenza dell'espressione "eu práttein", che vale alla lettera 'comportarsi bene', ma nell'uso comune significava 'essere in buone condizioni', 'passarsela bene'.

18) Isola dell'Egeo, a nord dell'Eubea.

19) Filosofo pitagorico e maestro di musica originario di Ceo (cfr. Platone, Protagoras 316a).

20) Il noto filosofo di Clazomene, teorico del "nous", amico e maestro di Pericle; accusato di empietà, abbandonò Atene e si rifugiò a Lampsaco, dove morì nel 428 a.C.

21) Musicologo (Platone, Laches 180d), allievo di Prodico e consigliere politico di Pericle (Plutarco, Pericles 4,1-4). Cfr. L. Piccirilli, Damone di Oa riconsiderato, in L'«Athenaion politeia« di Aristotele, a cura di L. R. Cresci e L. Piccirilli, Genova 1993, pp. 135-58.

22) Pericle aveva avuto dalla moglie Santippo e Paralo, noti per la loro scarsa intelligenza. Pericle il Giovane, che fu tra gli strateghi condannati a morte nel famoso processo seguito alla battaglia delle Arginuse (406 a.C.), era invece figlio di Aspasia.

23) Zenone di Elea, nato intorno ai 490 a.C., discepolo di Parmenide, maestro di Pericle (cfr. Plutarco, Pericles 4,5). è ricordato da Platone nel Parmenide e nel Fedro (261d).

24) Pitodoro, figlio di Isoloco, stratego ateniese (cfr. Tucidide, 3,115 e 4,65), menzionato anche nel Parmenide (126c-127d).

25) Ateniese facoltoso, probabilmente del demo di Aixone, conosciuto anche da documenti epigrafici. Fece parte dello staff pericleo, e fu come stratego al comando delle forze ateniesi inviate nel 433/432 a.C. a Potidea; rimase ucciso nello scontro vittorioso davanti a questa città (Tucidide, 1 62,4-63,3).

26) Una mina corrispondeva a 100 dracme e a 600 oboli; un talento a 60 mine.

27) Evidente il sarcasmo nei confronti dei politici ateniesi del tempo di Socrate.

28) Significato originario di "magalóphron", il nutrire grandi pensieri nel rapporto col mondo esterno: ampia progettualità e capacità innata di tradurre la progettualità stessa nella sua realizzazione pratica: cfr. in particolare Isocrate:, Ad Nicoclem 25 (U. Bultrighini, Crizia e la "megaloprhosúne" di Cimone, in «Quaderni urbinati di cultura classica», in corso di stampa. Cfr. supra, nota 3).

29) Il verbo "cubernáo" ('dirigere col timone') e l'immagine del "cubernétes" (il gubernator latino) sono fondamentali nella genesi e nello sviluppo della metafora della nave applicata allo Stato (cfr. Euripide, Supplices 880), la cui fortuna nei secoli è ben nota (cfr. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari 1984, pagine 58- 60,257-283;E. Rigotti, Metafore della politica, Bologna 1989, pagine 41 seguenti).

30) Il re di Persia, con cui Atene fu in stato di guerra per quasi tutto il quinto secolo; all'epoca in cui Platone immagina svolgersi il dialogo, il Gran Re era Artaserse primo (465/4-425/4 a.C), figlio di Serse (cfr. 121b).

31) A Sparta vigeva un regime diarchico. I due re appartenevano alle stirpi eraclidiche degli Agiadi e degli Euripontidi.

32) Cfr. Aristofane, Aves 1297-1299, menziona il personaggio, alludendo sarcasticamente alla sua abilità nel colpire le quaglie in un gioco non particolarmente edificante cui era dedita la gioventù ateniese. Altri accettano la lezione "ortugotróphos" (allevatore di quaglie').

33) L'idea espressa poco sopra da Alcibiade sui comandanti spartani e il Re persiano.

34) I due re spartani erano di puro ceppo eraclidico: Euristene e Procle, mitici conquistatori dori e capostipiti rispettivamente di Agiadi ed Euripontidi, risalivano attraverso cinque generazioni (Aristodemo-Aristomaco-Cleone-Illo) ad Eracle.

35) Fondatore eponimo della dinastia reale persiana, da cui discendeva il fondatore dell'impero, Ciro secondo il Grande (cfr. Erodoto, 7,11). A un ramo cadetto della dinastia apparteneva anche Dario primo figlio di Istaspe, succeduto a Cambise figlio di Ciro nel 522 a.C.

36) Il mitico eroe argivo nato dall'unione dì Danae con Zeus (accostatosi alla fanciulla sotto forma di pioggia d'oro). Per parte di madre, Perseo discendeva da Danao ed Egitto.

37) Aiace, padre di Eurisace, risaliva a Zeus attraverso tre generazioni (Telamone-Eaco-Zeus).

38) Il padre di Socrate, Sofronisco, era scultore: perciò poteva rivendicare una discendenza dal mitico inventore della scultura. Mi sembra davvero difficile negare il tono esclusivamente ironico e canzonatorio nelle parole di Socrate.

39) Il passo testimonia l'interesse diffuso nei Greci della prims metà del quarto secolo a.C. per la realtà politica e istituzionale persiana, e in generale per l'ideale monarchico. Esempio noto e significativo di questa tendenza è rappresentato dalla produzione senofontea.

40) è difficile stabilire quanto abbia spinto Platone a questa precisazione sulla purezza della razza regale a Sparta, e sulla stretta sorveglianza esercitata sulle mogli dei re, la relazione di Alcibiade con Timea, moglie di Agide secondo, di cui parla una parte della tradizione (Plutarco, Alcibiades 23,7-9; Lysander 22,6-8; Agesilaus 3,1-3; Moralia 467f; Ateneo, 12,535b-c) nel quadro del problema della successione ad Agide. Il vero padre di Leotichida, i cui diritti vennero usurpati dallo zio Agesilao, sarebbe stato Alcibiade, che avrebbe sedotto Timea nel periodo di permanenza a Sparta dopo la fuga dall'Italia (dall'inverno 415/414 al 412 a.C.). Se un riferimento indiretto nel testo platonico c'è, si è tentati di interpretarlo come ammiccamento ironico - su più livelli - al lettore.

41) Platone Comico (commediografo ateniese della seconda metà del quinto secolo a.C.), frammento 227 Kassel- Austin.

42) Sulla divisione della vita umana in settenni, come riflessa anche nelle Leggi, si veda D. Musti, La teoria delle età e i passaggi di status in Solone. Per un inquadramento socioantropologico della teoria dei settennii nel pensiero antico, in «Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'école Francaise de Rome» 102/1,1992, pagine. 11-35.

43) ZoroastrO (Zaratustra), fondatore della religione persiana, i cui sacerdoti ereditari erano i Magi. I Greci cominciarono a essere informati delle sue dottrine probabilmente proprio nell'età di Platone, soprattutto ad opera di Eudosso di Cnido.

44) Cfr. Plutarco, Lycurgus 16,6.

45) Socrate allude alle implicazioni paideutiche del rapporto tra "érastes" ed "erómenos", e nel contempo sembra voler alludere a sé. Cfr. supra, nota 1.

46) L'accezione di "megalophrosune" in questo passo sembra essere quella generica di 'grande senso di sé', scevro da ogni forma di meschinità. Cfr. Bultrighini, Crizia e la "megaloprhosune" di Cimone, citato.

47) Sulla valenza elitaria del concetto di "philoponía" nelle fonti letterarie ed epigrafiche, cfr. U. Bultrighini, Philoponia. Matrice aristocratica di uno slogan, in La multimedialità della comunicazione educativa in Grecia e a Roma. Scenario. Percorsi, citato, pagine. 83-86.

48) L'ampia fascia della popolazione laconica e messenica ridotta dai conquistatori dori allo status di servi rurali. Il loro controllo rappresentò in realtà il massimo problema per gli Spartiati e per la stabilità socioeconomica di Sparta. Incerta l'etimologia del nome, che parte della tradizione collega con la localita laconica dì Helos, ma che probabilmente ha a che fare con le forme verbali "eilon"(da airéo) o eálon (da "alíscomai"), con esplicito riferimento alla condizione di 'asserviti per conquista'.

49) Secondo gli scolii si tratterebbe di Senofonte.

50) Serse primo, re di Persia fino al 465/4 a.C.

51) Cfr. supra, nota 26.

52) Demo dell'Attica ad est di Atene.

53) Il pletro era una misura di superficie attica equivalente a metri quadrati 874.

54) Alcibiade nasce intorno al 450 a.C.; la scena del dialogo è dunque immaginata da Platone intorno al 430 a.C. Lo confermano le allusioni a Pericle, morto di peste nel 429 a.C., come ancora in vita (cfr. 118e). Non sembra tuttavia che Platone fosse interessato a un rispetto rigoroso della cronologia suggerita, come dimostra in 124a il riferimento al re Agide secondo, salito al trono in realtà qualche anno dopo (427 a.C.).

55) Leotichida secondo, re della dinastia euripontide dal 491 al 469 a.C.

56) Archidamo secondo, nipote di Leotichida e re dal 469 al 427 a.C.; guidò le invasioni dell'Attica nelle prime fasi della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.).

57) Agide secondo, figlio di Archidamo e re dal 427 al 400 a.C. circa.

58) cfr. 119b e 124e.

59) è ben nota la valenza elitaria e aristocratica dell'espressione "caloi cágatoi", anche quando sembra interessare solo la sfera etica e non solo quella sociopolitica.

60) In origine la funzione del corodidascalo, istruttore del coro, era svolta dal poeta stesso autore del dramma.

61) Nel Protagora (318e-319a), il celebre sofista indica orgogliosamente in questa «capacità di deliberare bene» nell'amministrazione privata e pubblica l'oggetto del suo insegnamento; ma Socrate mette subito a nudo la presunzione di questa rivendicazione (319a-320b).

62) La spitame, unità di lunghezza pari a cm 22,18, corrispondeva alla metà di un "pechius" ('braccio', cubito').

63) Un "pechius" equivaleva a cm 44,36.

64) Cioè in materia militare.

65) Cfr. Platone. Charmides 161e; Respublica 1,332b seguenti.

66) Nota 61.

67) Il tempio di Delfi. Pito era il nome usato per il sito, e Pizio l'epiclesi locale di Apollo. C'è un rapporto non del tutto sicuro e chiaro col serpente ucciso qui da Apollo, "púton" (Pitone), e col verbo "pútein" 'imputridire', collegato appunto con la fine del serpente (Hymnus Homericus in Apollinem 363).

68) Cfr. Senofonte, Memorabilia 4,2; Platone, Phaedrus 229a.

69) Cfr. 130d.

70) Omero, Iliade libro 2, verso 457. Eretteo è un mitico eroe attico.

71) L'anima, il «se stesso in sé» di cui supra, 129b e 130d-e.

72) Il termine greco "córe", esattamente come il latino pupilla, significa sia 'fanciulla' sia 'bamboletta' o figurina, quale appunto quella che appare riflessa al centro dell'occhio.

73) Espressione oscura, secondo Croiset, addirittura forse dettata solo dal gusto della simmetria. Croiset stesso propone, in forma dubitativa, la possibilità di un'allusione al pensiero della pagina scritta, da cui è possibile imparare la conoscenza di sé, o agli insegnamenti ricavabili dagli oracoli e da ogni fenomeno con carattere di rivelazione.

74) Parti del testo è compreso tra parentesi uncinate che sono con ogni probabilità un'interpolazione dovuta alla mano di uno scrittore cristiano (cfr. S. Fortuna, Per un'origine cristiana di Platone, Alc. primo 133c 8-17, in «Koinonía» 16,1992, pagine 119-36.

75) Cfr. 131b.

76) Cioè, sicuro di non essere deluso dalle persone per cui offre garanzia. Questo senso di "ásphales" (e non quello di 'affidabile' riferito a Socrate) mi sembra confermato dal tono costante di sicurezza circa i propri buoni propositi adottato da Alcibiade nelle sue risposte.

77) Questa è una delle caratteristiche principali dell'uomo tirannico secondo Platone, che ne fa oggetto di analisi nel libro 9 della Repubblica.

78) Secondo una credenza popolare, le giovani cicogne avrebbero prestato assistenza alle vecchie che le avevano precedentemente allevate.

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